A Disabilandia si tromba!

Parliamo di etichette, ma non di quelle dei vestiti. Parliamo delle etichette che tra esseri umani ci appiccichiamo addosso gli uni agli altri per riuscire a mettere ordine nella enorme diversità che ci caratterizza.

La scorsa settimana ho letto un post in cui Marina Cuollo parlava delle “disabilità invisibili”, nelle quali rientrano anche alcune manifestazioni a prima vista meno evidenti – ma non meno invalidanti – dell’autismo. Ho scritto a Marina per ringraziarla delle sue parole e alla fine ci siamo scambiati i rispettivi libri: io le ho mandato “Eccentrico” e lei mi ha inviato una copia di “A Disabilandia si tromba”.

Ho letteralmente divorato il libro di Marina, alternando momenti di riflessione estremamente profonda ad altri in cui ho riso fino alle lacrime; le descrizioni delle varie tipologie sia di “normodotati” che di disabili sono disincantate, cinicamente realistiche e sempre estremamente divertenti. Ma una delle cose che più mi ha colpito durante la lettura è stata proprio il modo in cui vengono trattate le definizioni.

Di etichette e definizioni non solo diagnostiche ho parlato tanto, ho spiegato che sono qualcosa di naturale, che la nostra mente si fa un’idea della realtà nella quale è immersa (e che allo stesso tempo contribuisce a creare) proprio costruendo categorie di oggetti, tanto degli oggetti del mondo esterno quanto quelli interni, come le emozioni. Di fatto, un’emozione non è altro che la creazione artificiale, un’etichetta appiccicata su una serie di reazioni biologiche che di per sé noi percepiremmo ugualmente anche se non le raggruppassimo ed etichettassimo dandogli nomi come paura, gioia, disgusto, rabbia.

Ora, per quanto la creazione di categorie sia una cosa naturale, è anche qualcosa che va superata almeno nei confronti delle persone. Insomma, tra noi esseri umani sarebbe ora di andare oltre questo stato di natura e cominciare ad accettare le differenti caratteristiche di ciascuno senza per forza doverle etichettare. Soprattutto perché questo discorso che se una cosa è presente in natura allora va bene, lascia il tempo che trova. In natura sono presenti fenomeni come il cannibalismo, l’incesto, lo stupro, l’assassinio, ma non per questo noi andiamo in giro assolvendo gli stupratori e gli assassini dicendo: ma sì, sai, questa cosa la fanno anche la specie X e la specie Y, quindi è naturale.

In quanto esseri umani portatori di una mente estremamente complessa (anche se a volte non si vede) che per puro caso ha sviluppato una coscienza ancora più complessa in grado di riflettere sulla sua stessa esistenza, in quanto macchine così intelligenti forse dovremmo superare questa cosa della natura e cominciare a ragionare in termini culturali.

E questo già accade dappertutto, tranne che quando si parla di differenze tra le persone. Usiamo aggeggi come i cellulari per fare videochiamate a migliaia di chilometri di distanza e raccontarci cosa abbiamo mangiato a pranzo e che magliettina indosseremo per andare al supermercato a fare la spesa, e questo non è naturale, ma nessuno si scandalizza dicendo che in natura l’essere umano nasce senza cellulare; il cellulare è una conquista dell’umanità, dell’evoluzione culturale e scientifica che a un certo punto si è separata dalla lenta e a volte inumana evoluzione biologica.

Le etichette, nel libro di Marina, sono trattate un po’ in questo modo. Che esse esistano è un dato di fatto che, soprattutto noi che ne abbiamo attaccate addosso di belle pesanti, non possiamo fare altro che constatare. L’essere umano cataloga per capire, e mentre cerca di capire inventa una serie di categorie nelle quali infila altri esseri umani che alla maggioranza appaiono diversi per varie caratteristiche sia fisiche che mentali. C’è la categoria dei disabili fisici, quella dei disabili psichici, e in ognuna di queste categorie ci sono tante sotto categorie alle quali appartengono definizioni come “diversamente abile” o “ipovedente”, ma anche le persone “nello spettro autistico”, o quelle con “deficit cognitivi”.

Poi ci sono le etichette non ufficiali come “storpio”, “ritardato”, “sciancato”, “inutile”, tutte etichette che a volte si sostituiscono o si sovrappongono alle prime, che invece sono meno violente e più politicamente corrette. Ma sempre di etichette si tratta.

A Disabilandia si tromba è una raccolta di quegli stereotipi ed etichette utilizzati nei confronti dei disabili fisici, dei concetti che girano intorno alla disabilità e di quelle manifestazioni di abilismo fastidiosissime che a un estremo escludono il disabile in quanto difettoso, e all’estremo opposto creano esclusione mascherata da inclusione con atteggiamenti come l’inspiration porn (che non ha niente a che vedere col sesso).

Cos’è l’abilismo? È la versione per disabili del razzismo. Nel razzismo si discriminano le persone in base alla differente provenienza geografica, all’appartenenza culturale o etnica, nell’abilismo si viene discriminati in base alle differenti caratteristiche fisiche, sensoriali o mentali. Sempre di discriminazione si tratta. E l’inspiration porn (o pornografia motivazionale) è quella forma di discriminazione abilista per cui le persone disabili vengono rappresentate come fonte di ispirazione esclusivamente o in parte per la loro disabilità. Tipo: «Lei sì, che è un modello da seguire, lei che vive su una sedia a rotelle fin da quando era bambina e nonostante tutto si è diplomata, si è laureata e sa anche scrivere al computer!», oppure: «Nonostante l’autismo sei riuscito a diplomarti al conservatorio e a fare concerti, sei un mito!».

Nel libro di Marina Cuollo l’abilismo, con tutte le sue etichette e con quel falso buonismo che nasconde solo il disagio del “normale” davanti alle differenze, diventa un boomerang che ogni volta va a sbattere contro quelle persone che l’hanno lanciato. Pagina dopo pagina, a volte nascosto dietro a una risata di quelle che ti fanno venire le lacrime agli occhi, c’è un attacco senza pietà proprio verso quelle espressioni e idee che causano esclusione, verso quei luoghi comuni che tali sono diventati perché i “normodotati” (nel caso degli autistici diremmo i “neurotipici”, ma il concetto è quello) usano un sistema di etichette che si basa esclusivamente su quelle che essi vedono come menomazioni, come difetti invece che come differenze, e questo anche quando vorrebbero parlare di inclusione.

D’altra parte, come puoi parlare di inclusione se fai partire il discorso proprio sbattendomi in faccia quelle presunte menomazioni, quei deficit; insomma, come puoi pensare a me come tuo pari se mi infili nella categoria dei minorati? Questo è purtroppo l’atteggiamento più comune nella società, e viene espresso in modo estremamente divertente ma tagliente da Marina quando enumera le varie categorie di “normotipici” come l’”Homo misericordiosus”, buonista a oltranza che pensa la vita di un disabile sia una tragedia senza fine, o lo “StimAmmiro” che “[considera] il disabile non in quanto persona, con nome, cognome e fedina penale, ma in quanto eroe: un essere speciale, un’entità meravigliosa alla cui esistenza sentono di dover applaudire anche da dietro la porta del bagno mentre sta facendo la cacca, un po’ per supporto, un po’ per ammirazione”.

La categoria degli StimAmmiri fa un uso abbastanza disinvolto di quel “porno motivazionale” di cui parlavo prima, e vi assicuro che essere ammirati per i vostri deficit o perché riuscite a fare le cose anche più banali nonostante quei deficit, è frustrante, umiliante e non aiuta in nessun modo a sentirsi meno discriminati, anzi.

A Disabilandia si tromba è un libro che spiega il punto di vista di un disabile in modo semplicissimo da comprendere perché Marina non usa giri di parole o eufemismi: lei dice le cose come stanno. Certo, il più delle volte lo fa in tono scherzoso, ma anche in quei casi vale la pena riflettere sulle sue parole e andare oltre le battute.

In linea con quello che ho sempre detto e sostenuto, credo che questo libro sia importante proprio perché è un libro sulla disabilità scritto da una diretta interessata che questa condizione la vive quotidianamente, e non solo può mostrare a chi sta fuori cosa si prova, ma lo fa anche senza voler suscitare compassione o ammirazione. Libri come questo sono importanti perché mostrano al mondo “normale” che fare inclusione è trattare gli altri in modo normale e considerare le caratteristiche di ciascuno per quello che sono: differenze, non menomazioni. Tutto questo dimostra quanto il concetto stesso di disabilità sia legato a una visione negativa e deficitaria delle differenze, e quanto questo modo di vedere possa essere capovolto smettendo di giudicare gli altri in base a quello che, nella estrema piccolezza della nostra esperienza, riteniamo falsamente normale e quindi giusto.

Concludo con una frase tratta dal libro di Marina che mi ha toccato molto ed è un invito a tutti: “È tanto chiedere di essere guardati come fareste con qualcuno che si è appena tinto i capelli? Curiosità, approvazione, disapprovazione. Possiamo essere brutti o belli, pazienza. Ma guardateci con umanità. Come esseri viventi della stessa specie.

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