Il nostro piccolo mondo

Ciascuno di noi vive nel proprio mondo, dentro una realtà nella quale tutto è vissuto in prima persona; noi siamo i protagonisti dei nostri racconti. Solo io posso provare i miei sentimenti, vedere ciò che vedo, assaporare quello che mangio. Solo io so esattamente com’è il dolore che sento quando vado a sbattere contro lo spigolo della cassettiera ogni mattina. Certo, posso riuscire a descrivere anche in modo accurato quello che provo, ma rimarrà sempre la mia realtà, il mio mondo. Per quanto possa immaginare quello che tu provi, non avrò mai la certezza che quel dolore al piede, il sapore del gelato alla vaniglia o il colore di un tramonto siano esattamente gli stessi per me e per te.

Anche l’empatia, parola abusata per descrivere un meccanismo cognitivo che – si dice comunemente – ci permetterebbe di entrare nella testa dell’altro, di provare i suoi sentimenti, spesso è citata in modo impreciso: noi non possiamo provare i sentimenti di un’altra persona, e nemmeno essere certi di cosa stia pensando. Non possiamo perché è tutto estremamente soggettivo, perché le sfumature di quello sgabello rosso che stiamo guardando insieme dipendono da troppe variabili, e basterebbe che un paio di neuroni della mia corteccia visiva si attivassero diversamente che quel rosso per me sarebbe diverso da quello che vedi tu. Questo senza contare la possibilità che io sia daltonico.

In realtà lo dice la definizione stessa[1] che l’empatia è “la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale”. L’empatia è quindi una supposizione, anzi, una proiezione dei tuoi sentimenti sullo schermo delle mie esperienze. Io sento quello che, secondo me, è il dolore o la gioia o la rabbia che stai provando tu come se fossero le mie, in base alla mia esperienza. Ma io non posso provare la TUA rabbia. E quindi, nonostante ci si possa avvicinare anche molto a comprendere i sentimenti e i pensieri degli altri, c’è sempre uno scarto, un possibile errore, quel bias che va tenuto in considerazione e soppesato con attenzione proprio perché sappiamo che esiste.

Ciascuno vive, cresce, pensa, prende decisioni in base a quello che vede e vive dall’interno del proprio mondo. Se io nasco maschio, bianco, eterosessuale e neurotipico in un paese in cui le donne, gli appartenenti alla comunità LGBT, i disabili o i neuroatipici vengono discriminati, potrò solo provare a immaginare cosa essi vivano, cosa sentano quotidianamente, che significato abbia per loro anche solo uno sguardo.

Quando certe cose non le viviamo in prima persona diventa importante non chiudersi nelle proprie idee ma dare fiducia alla narrazione degli altri, confidare nella loro descrizione di una realtà che potrebbe essere differente dalla nostra perché con tutta sicurezza la nostra realtà sarà accessibile fino in fondo solo a noi stessi. Ascoltare senza pregiudizi aiuta ad avvicinarsi.

Provateci, provate a immaginare cosa significhi oggi essere una giovane omosessuale in un paese dove non puoi permetterti il lusso di essere te stessa, di vivere apertamente quei sentimenti che agli altri non solo sono permessi ma anzi incoraggiati. Immaginate cosa possa significare essere donna in un’azienda che sulle questioni di genere è rimasta indietro di un secolo, o essere autistico in un mondo che vede il vostro modo di essere come un errore della natura, un guasto da dover riparare, un mondo che vi considera inferiori. Provate a immaginare che peso immenso potrebbe avere su di voi anche solo una una battuta riuscita male o l’uso di un termine che vi ferisce profondamente ma che, per l’altro, è una parola come un’altra. Quanta storia personale quel vocabolo usato con leggerezza può smuovere, quanti ricordi riportare a galla e quante cicatrici riesce a riaprire una semplice parola?

Se provaste davvero a immaginare l’inferno che le vostre parole possono scatenare in altri esseri umani forse le usereste con maggiore attenzione. E non esiste nessuna scusa per non provarci, nessuna! Non vale la giustificazione superficiale che tanto sono solo parole, perché poi quando capita il contrario e qualcuno insulta voi, allora siete capaci anche di prendere una mazza, un coltello o una pistola, pur di far cessare l’apocalisse che quella semplice parola ha scatenato dentro di voi. Che succede, in questo caso, che i vostri sentimenti valgono più di quelli degli altri? Effettivamente sì, siamo naturalmente portati a crederlo proprio perché, alla fin fine, ciascuno percepisce la realtà dall’interno del proprio piccolo mondo.

Non esistono scuse per non fare attenzione al linguaggio che usiamo. Se quello che diciamo ferisce qualcuno abbiamo il dovere di rifletterci su e trovare un modo per esprimere le nostre idee che non provochi dolore o rabbia o frustrazione. Una sorta di attenzione personalizzata, solo che invece di prevedere, individuare ed essere attenti ai bisogni dell’individuo a scopi commerciali, lo facciamo con un fine differente, con lo scopo di creare rispetto per l’altro.

E inoltre dobbiamo pensare che è vero anche il contrario, che ciò che diciamo può aiutare a rimarginare ferite aperte, far sentire meno soli; può far sorridere e rasserenare, cambiare in meglio il corso di una vita.

La nostra società svela ogni giorno di più la sua straordinaria complessità. Le semplificazioni con cui determinate persone descrivono il mondo e la sicurezza superficiale con cui impongono quelle personali visioni della realtà a tutti gli altri, impediscono la comprensione di tale complessità. Spesso mi sento dire che il dialogo è un’utopia perché la vita è una lotta continua, che bisogna farsi valere, combattere. E io penso sempre che se davvero è così (e può esserlo, sicuramente) è proprio perché ci sono individui che credono sia così e che vogliono imporre la propria visione del mondo agli altri e preferiscono fare la guerra piuttosto che provare a capire.

Se la vita è una battaglia è perché qualcuno, da qualche parte, ha deciso di scendere in guerra fregandosene del fatto che le cose si sarebbero potute risolvere diversamente, magari partendo dal rispetto dell’altro e di se stessi, dal preoccuparsi di quanto la nostra realtà possa avere un impatto anche violento su quella degli altri.

Ci sono tanti livelli di lettura della realtà, alcuni sono particolarmente profondi e possiamo accedervi solo quando a mostrarceli senza veli e distorsioni sono le persone che li abitano. Se dovessi basarmi solo sulla mia esperienza personale, non saprei qual è la realtà di quella donna che lavora in un’azienda che discrimina in base al genere fino a che non mi verrà raccontata, spiegata e illustrata nei dettagli da colei che la sperimenta. Lo stesso vale per le difficoltà a cui possono andare incontro le persone LGBT, o i disabili o i neuroatipici: il livello di profondità a cui può portarci il racconto in prima persona non solo ci può aiutare a comprendere la loro realtà, ma aggiunge una chiave di lettura completamente nuova alla nostra visione delle cose, contribuisce ad aprire il nostro piccolo mondo ai mondi degli altri.

Che il tuo universo abbia determinati contorni o regole, che certe parole nel tuo piccolo mondo egocentrico non appaiano offensive perché a te non toccano nessun nervo scoperto, non vuol dire nulla. Se vogliamo una società in cui possiamo convivere tutti, in cui ciascuno possa esprimere serenamente le proprie differenze, allora dobbiamo cominciare a prenderci la responsabilità di comprenderla, questa società, e rispettare ciascun individuo per chi è o sente di voler essere.

NOTA:
[1] http://www.treccani.it/vocabolario/empatia

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