AUTISTICI DA SPIAGGIA

Dopo un periodo di riflessione e disintossicazione dalle reti sociali necessario a recuperare una routine più adeguata alle mie caratteristiche, stamattina un’amica mi ha fatto leggere un articolo in cui viene pubblicizzata una spiaggia per bambini autistici (l’articolo potete leggerlo qui).

Il mal di stomaco è iniziato già leggendo di “bambini che soffrono di questi disturbi”. Niente, mi sono detto, non è cambiato nulla, noi autistici dobbiamo continuare a soffrire per essere quello che siamo; quelle differenze nell’organizzazione del sistema nervoso che ci fanno sperimentare ed elaborare la realtà in modo differente dalla maggioranza DEVONO per forza essere viste dagli altri come una sofferenza.

Ma il problema non è in questo dettaglio che, per quanto io ritenga che sia importante perché dà di me e delle persone come me un’immagine costantemente legata alla sofferenza, è la cosa meno fastidiosa della questione. Il vero problema sta nell’iniziativa stessa che, per l’ennesima volta, affronta l’inclusione delle diversità seguendo un’ottica completamente sbagliata che insiste nell’istituzionalizzare le differenze segregando le minoranze (tutte, inclusa quella degli autistici).

Carmen de Monteflores spiega in modo estremamente chiaro cosa significa istituzionalizzare le differenze nell’introduzione a un suo articolo: «Quando un gruppo di maggioranza assume il potere di istituire norme dalle quali i gruppi di minoranza sono visti deviare, le differenze tra questi gruppi diventano istituzionalizzate. La differenza viene quindi percepita come un deficit o come un mancato rispetto degli standard della maggioranza. L’istituzionalizzazione delle differenze tra individui e tra gruppi crea stereotipi che riducono la piena umanità dell’individuo a pochi tratti devianti selezionati. Lo stereotipo degli individui e dei gruppi di minoranza spesso porta a gravi limitazioni sociali e ad un notevole disimpegno psicologico.»[1]

Ecco, per me un’iniziativa del genere ha questo sapore qui, la creazione di un ghetto in cui rinchiudere i bambini autistici. Ovviamente non metto in discussione le buone intenzioni ma, come si dice, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, per cui a volte anche volendo aiutare chi riteniamo in difficoltà, rischiamo di fare peggio. E vi spiego perché.

Sicuramente è vero che noi autistici (non solo i bambini, comunque, ma anche gli adulti che normalmente scompaiono dai radar dell’interesse pubblico forse perché suscitano meno tenerezza) nella maggioranza dei casi abbiamo bisogno di tranquillità, di silenzio, di avere poche persone intorno per poterci rilassare, e una spiaggia in cui tutto questo sia possibile ci aiuterebbe ad andare al mare senza dopo soffrire crisi dovute al sovraccarico sensoriale ed emotivo. Il problema qui è l’idea che un tratto di spiaggia più tranquilla debba essere riservato ai bambini autistici e non a chiunque desideri stare in pace al mare.

Iniziative come questa contribuiscono a far passare sempre lo stesso messaggio per cui una minoranza caratterizzata da alcune differenze a volte difficili da gestire, e comunque impossibili da riportare verso quella fittizia e assurda idea di normalità che tanto piace alla maggioranza, debba essere esclusa dalla vita sociale per poter vivere liberamente il proprio modo di essere.

A tutti quelli che diranno che questa cosa è meglio di niente rispondo che sì, forse è così, non sono così superficiale da non comprendere quante difficoltà alcune famiglie incontrino quando si tratta di andare in spiaggia con figli che si comportano in modo evidentemente diverso dagli altri e so bene che per molti sarà anche utile. Quello che mi scoraggia è l’istituzione di questo ghetto, è l’aver trovato una soluzione che è solo un minuscolo cerotto per fermare un’emorragia, e che venga addirittura vista come una conquista. Perché non lo è, anzi, è una sconfitta.

Una conquista sarebbe stato cercare di educare le persone che si considerano “normali” a convivere con le differenze, a comprenderle, a guardarle senza provare pietà o fastidio, magari a volerne sapere di più di quegli individui che non sopportano la confusione e che a volte hanno comportamenti fuori dal comune. Perché l’unico modo per fare inclusione, l’unica maniera di accogliere, non è concedere angolini di spiaggia in cui gli autistici possano essere autistici senza disturbare nessuno (e sì, anche senza essere disturbati dalla gente che è spesso rumorosa e invadente). L’unica maniera di includere è rendersi conto che le differenze sono dovunque, che la normalità intesa come livellamento sociale e culturale è un’invenzione che va contro la realtà delle cose perché l’essere umano manifesta caratteristiche diverse, e queste non devono essere incluse: sono già presenti nella società.

Iniziative come questa, per quanto possano alleviare momentaneamente le difficoltà di alcuni, non incidono positivamente sul tessuto sociale perché non spingono verso un cambiamento. Tutti gli individui che fanno parte di una minoranza vivono quotidianamente in un mondo che li spinge a essere diversi da quello che essi sono in realtà, un mondo che osserva i loro comportamenti e li etichetta come giusti o sbagliati, come adeguati o problematici basandosi su modelli comportamentali che hanno come unico merito quello di essere espressione di una maggioranza numerica. Ma essere in tanti non significa necessariamente essere nel giusto, e la storia è piena di esempi in cui le maggioranze hanno trasformato un semplice vantaggio numerico in un valore morale o in una qualità positiva, schiacciando le differenze anche con la forza.

Inoltre, per l’ennesima volta si è persa l’occasione di fare esercitare agli autistici quei diritti fondamentali che gli altri, i “normali”, danno per scontati quotidianamente: il diritto di autorappresentanza e di autodeterminazione. Non sono paroloni privi di sostanza, ma si riferiscono a quella possibilità di decidere per se stessi e parlare a nome proprio e del proprio gruppo di appartenenza, cose che nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quando riferite a individui non autistici.

Sarebbe bastato, per una volta, coinvolgere i diretti interessati nella creazione del progetto, far decidere o almeno domandare agli autistici cosa avrebbero voluto. E invece, come sempre, arriva la concessione dall’alto, un contentino che tra l’altro viene pubblicizzato utilizzando espressioni inappropriate come “soffrire” di autismo o addirittura applicando una terminologia prettamente medica (e grammaticalmente sbagliata), come alla fine dell’articolo dove si dice che “questo consentirà da parte dei volontari di effettuare il triage in modo agevole”.

Il triage! Nemmeno si trattasse di un pronto soccorso, di dover valutare se le persone che si recano a bagnarsi al ghetto sono davvero “malate” di autismo.

Forse pensare di dedicare un tratto di spiaggia a TUTTI coloro i quali desiderano tranquillità era troppo difficile. Sarebbe stato troppo creare un luogo in cui chiunque, autistico, neurotipico, biondo, alto, magro, down, gay, eterosessuale, ansioso, svedese, cinese, italiano, si fosse potuto rilassare evitando la confusione che normalmente regna sulle spiagge d’estate.

Mi dispiace, ma questa non è inclusione, quella è un’altra cosa. Includere non vuol dire nascondere le differenze, relegarle a luoghi in cui non mettono in discussione la normalità; includere non è concedere contentini che non hanno alcun effetto duraturo e positivo sulla società ma anzi aumentano negli autistici la sensazione di essere sbagliati, indesiderati, non fatti per stare nel mondo. Includere è guardare alle differenze per quello che sono: differenze. Includere è proteggere, riconoscere e valorizzare le caratteristiche di ciascuno, è eliminare quelle barriere fisiche e sociali che creano la disabilità e l’esclusione, non crearne di nuove.

NOTE
[1] de Monteflores, C. (1986). Notes on the management of differences. In T. S. Stein & C. J. Cohen (Eds.), Contemporary perspectives on psychotherapy with lesbians and gay men (pp. 73-101). New York: Plenum .

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