Il peso dell’inclusione

un manichino di legno snodato steso sotto delle pietre

Certi giorni è più difficile di altri tenere insieme i pezzi. È un mondo rumoroso, tanto, troppo rumoroso. E anche illuminato, troppo illuminato. Che poi ormai co’ sti maledetti led è davvero diventato impossibile, ti bucano gli occhi come spilli, basta guardare una vetrina e ti ritrovi con le cornee bruciate.

È un casino da quando apri gli occhi la mattina. La televisione dei vicini, il bambino di fronte che urla e il cane che abbaia tutto il giorno sul balcone, e pure quell’altro con la chitarra elettrica. E poi l’incenso che sale dall’appartamento di sotto, con l’incenso il mal di testa è garantito, lo so fin da bambino quando mia nonna mi costringeva ad andare in chiesa.

Coi sensi già ingolfati di prima mattina preparati a lavorare. Riunioni, email, progetti, cose da ricordare, parole che certi giorni proprio non te ne viene una e spiegaglielo, alle cento persone che si sono collegate per ascoltarti, che oggi stai facendo una fatica inumana anche solo a dire buongiorno.

Ma devi tenere botta, perché non importa che tu lo dica e lo scriva dappertutto, non fa niente se lo sanno tutti che sei autistico e i tuoi sensi assorbono ogni minimo stimolo fino a sovraccaricarsi come una pentola a pressione senza valvola di sicurezza. Non importa spiegarlo alle conferenze che le persone come te hanno ritmi diversi, che quando andate in sovraccarico sbroccate, schioppate e vi riducete in mille pezzi o peggio vi sgonfiate come un canotto bucato, inutilizzabili per ore.

Anche se lo sa, il mondo lì fuori, che funzioni in un’altra maniera, alla fine in un modo o nell’altro devi funzionare. Fa’ un po’ come ti pare, fa’ l’equilibrista: senza mani signore e signori, a occhi chiusi, venghino a vedere l’autistico che fa le cose normali; salta, striscia, ridi o piangi ma devi esserci, devi fare, parlare, lavorare, pagare le bollette, risolvere il problema causato dal commercialista, mandare a quel paese l’assicurazione, e poi devi ricordarti di mangiare, respirare, chiamare il dentista, esistere, avere una vita proprio come tutti gli altri.

Perché nonostante i contentini che ogni tanto ci vengono lanciati dall’alto, non è ammesso un altro modo di esistere che non sia quello dettato dalla norma. E se non sei standard per un motivo qualsiasi, il problema è solo tuo. Non vorrai mica che la società cambi davvero per far piacere a quattro gatti? Vi chiamate minoranza per un motivo, eh. Comprati le cuffie antirumore, incollatele in testa tutto il giorno e tira avanti. Metti gli occhiali scuri nei supermercati illuminati che nemmeno lo stadio di notte, abbozza quando gli organizzatori dell’evento sull’accessibilità a cui ti hanno invitato insistono per farti andare di persona perché “è più bello guardarsi in faccia”, alla faccia dell’accessibilità.

Certi giorni è più difficile di altri tenere insieme i pezzi. Arrivare intero a sera.

Che poi alla fine lo sai, è sempre così: una volta spente le luci, quando i vicini ti avranno concesso la grazia di spegnere la televisione e potrai finalmente scollarti le cuffie dalla testa, quando sentirai ogni muscolo finalmente rilassarsi al buio e la tensione che ti ha tolto il fiato tutto il giorno calerà, quando il mal di stomaco e le vertigini si scioglieranno, solo allora comincerai a piangere.

Un pianto incontrollabile perché i tuoi nervi si stanno scaricando ma non solo. È anche un pianto di rabbia, di frustrazione, perché non sei scemo, non te l’aspetti mica che il mondo cambi per te e quattro gatti come te. Ma almeno vorresti gli altri capissero che a portare addosso il peso di quella che chiamano inclusione, siete solo tu e tutte le persone che questo mondo tiene fuori dalla porta, quelle diverse, strane, quelle che devono bere o affogare, che si devono adattare e devono pure ringraziare.

E alla fine crolli, distrutto, sperando che domani vada meglio, che il mondo decida di lasciarti in pace, magari di ignorarti che, a volte, ti sembra già tanto.

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