I bambini autistici crescono

I BAMBINI AUTISTICI CRESCONO E DIVENTANO ADULTI AUTISTICI

Per quanto possa sembrare scontato, una buona parte dell’opinione pubblica continua percepire l’autismo come una condizione esclusivamente infantile, non contemplando quella che però è la realtà: per ogni bambino autistico oggi, ci sarà un autistico adulto domani.

Questa percezione errata è anche frutto delle campagne di comunicazione che utilizzano l’immagine del bambino autistico perché, tra le altre cose, rispetto a quella dell’adulto genera maggiore compassione e attenzione verso l’argomento, anche in termini economici[1].

Una buona parte degli autistici appartengono a quello che l’ultima edizione manuale diagnostico dell’Associazione Psichiatrica Americana (DSM-5) definisce come autismo di livello 1, quello che viene definito anche ad “alto funzionamento” e in cui oggi rientra anche la sindrome di Asperger. Noi autistici appartenenti a questa categoria possediamo spesso una caratteristica che dall’esterno potrebbe apparire un vantaggio ma che, vista dall’interno, è causa grandi difficoltà, dolore e frustrazione che spesso portano a burnout e depressione.

Parlo della nostra capacità mimetica, la famosa “maschera” di cui ho già scritto in precedenza.

Quell’abilità di apprendere fin da piccoli, grazie ai continui richiami di una società che stigmatizza il diverso, che così come si è non va bene, che bisogna trovare il modo di assomigliare agli altri, ai normali.

In molti riusciamo nell’intento, a volte ci riusciamo così bene che dall’esterno appariamo semplicemente un po’ strani, eccentrici, quasi normali. Poi, quando le capacità personali non riescono a nascondere più il nostro diverso funzionamento questa finzione quotidiana, costante ed estenuante, diventa impossibile da portare avanti, e avviene il crollo.

Il mondo così come lo avevamo costruito in anni e anni di duro autocontrollo e repressione esplode in miliardi di minuscoli pezzettini e rimaniamo nudi, inermi nella nostra vera essenza autistica[2].

L’esplosione avviene quando le relazioni sociali si fanno più complesse e le richieste e le aspettative della società, della famiglia e anche le nostre personali, ci mettono davanti all’evidenza: siamo fatti in un altro modo, e questa effimera normalità esibita con sempre maggiore difficoltà ci sta distruggendo, esaurendo, prosciugando.

A volte succede durante l’adolescenza, altre volte in età adulta. In entrambi i casi è lo scontro con la realtà sociale, con le strutture e il funzionamento del mondo al quale abbiamo provato ad assomigliare per necessità, a provocare l’esplosione. Quasi sempre ci sono di mezzo la scuola o il lavoro, i luoghi in cui il livellamento sociale è la norma; pezzi di società in cui ogni differenza viene amplificata e stigmatizzata col solo fine di escluderla, cancellarla.

Al di là delle buone intenzioni e del duro lavoro di tanti, l’inclusione scolastica e lavorativa è ancora un miraggio, e nella maggior parte dei casi mira a correggere il diverso, a far sì che apprenda se non proprio a diventare normale, almeno a non disturbare.

Molti di noi posseggono qualità che potrebbero essere particolarmente utili tanto a livello accademico quanto professionale, ma queste capacità vengono insabbiate da quel groviglio di difficoltà nelle quali siamo costretti a muoverci a volte senza quasi più forze e solo perché la società neurotipica dà tanto peso alle apparenze.

Fino a quando la scuola e il mondo del lavoro non saranno capaci di accogliere realmente la diversità, non cambierà nulla. A niente serviranno i corsi di “addestramento” per diventare bravi impiegati, a cui alcuni di noi vengono sottoposti, se poi sul lavoro verremo mandati in burnout da un ambiente inospitale che non tiene in considerazione le difficoltà altrui perché, siamo onesti, qualsiasi cosa ci venga concessa per farci funzionare meglio (e per rendere di più, tra l’altro) viene visto dai colleghi come un privilegio, come qualcosa che a loro verrebbe tolto.

Perché lui deve lavorare da casa e io no? Perché lei deve avere l’ufficio per conto suo e io no? Perché a loro viene concesso di uscire dall’aula per calmarsi e noi dobbiamo rimanere ad ascoltare le lezioni? È bello che ci siano tante persone giuste, intelligenti e aperte verso le differenze, ma in molti casi non è così.

Fino a quando il nostro diverso funzionamento verrà interpretato come un capriccio, non cambierà nulla.

E nessuno venga a dirmi che non è così, perché solo noi sappiamo quanto questo accada ogni singolo giorno. Il dolore lo proviamo noi, quando sull’orlo del baratro ci viene detto di smetterla di fare tante storie, che sono tutte scemenze. Le lacrime ce le ingoiamo noi, giorno dopo giorno, anno dopo anno, lavoro dopo lavoro, perché tanto non si vede, che sarà mai, sono tutte sciocchezze.

I bambini autistici prima o poi cresceranno.

Molti di quei bambini sono già adulti adesso. In tanti proviamo a farci sentire, a spiegare cosa voglia dire vivere come un alieno su un pianeta sconosciuto, cercando di passare per umani ogni mattina fino a che le forze non vengono meno.

Una scuola e un luogo di lavoro in cui ciascuno possa serenamente esprimere il proprio essere anche per dare il meglio di sé, sono il presupposto senza il quale nessuna società può dirsi veramente giusta e civile.

NOTE:

[1] Stevenson, J. L., Harp, B., & Gernsbacher, M. A. (2011). Infantilizing Autism. Disability studies quarterly, 31(3), dsq-sds.org/article/view/1675/1596. https://doi.org/10.18061/dsq.v31i3.1675

[2] Il DSM-5 avverte i clinici di questa possibilità quando al punto C. dice: I sintomi devono essere presenti nell’infanzia, ma possono manifestarsi pienamente solo quando le richieste sociali eccedono le capacità limitate.

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