Divulgare o raccontare?

Divulgare o raccontare? Perché, a prescindere dalla dignità di entrambe le forme di comunicazione, non sono la stessa cosa.

Ecco la definizione del vocabolario Treccani della parola divulgazióne: “s. f. [dal lat. tardo divulgatio -onis]. – L’azione, il fatto di divulgare, […] diffusione di teorie o dottrine scientifiche, filosofiche, politiche, economiche, ecc., attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, sia come fine a sé stessa, sia con lo scopo di interessare un sempre più largo strato sociale alle nuove scoperte, al progresso del pensiero e della scienza e di contribuire all’elevazione politico-culturale delle masse […]”[1]

E allora vi svelo un segreto: per fare divulgazione bisogna studiare, e anche tanto. Bisogna studiare perché fare divulgazione vuol dire informare, e credo che nessuno vorrebbe mandare in giro informazioni errate, fuorvianti o addirittura pericolose.

Oggi però sembra che chiunque si senta autorizzata a fare divulgazione su argomenti a caso, a volte perché d’interesse personale, come potrebbe essere la cucina che va tanto di moda, o perché coinvolta in prima persona, come nel caso dell’autismo.

Eppure non basta saper cucinare per poter insegnare agli altri come realizzare determinate preparazioni o per raccontare la storia di una ricetta, che è indissolubilmente legata alla cultura di un luogo: bisogna studiare. Allo stesso modo un autistico non necessariamente è in grado di fare divulgazione sull’autismo. E questo perché se da un lato può sicuramente descrivere agli altri la propria condizione dall’interno, ciò che in prima persona prova quotidianamente, dall’altro sta raccontando il proprio punto di vista e quella non è divulgazione, ma il racconto personale di un autistico.

Vivere in prima persona una situazione non ci rende automaticamente in grado di utilizzare gli strumenti propri della comunicazione, non ci fornisce la capacità di maneggiare la letteratura critica e scientifica sull’argomento, cosa fondamentale per dare conferma a ciò che altrimenti rimane un racconto personale. Importante, utilissimo nella creazione di una narrazione condivisa, ma comunque un racconto personale.

Per informare il pubblico bisogna studiare, saper scegliere le parole giuste perché, non mi stancherò mai di dirlo, le parole hanno un peso enorme. Fare divulgazione significa assumersi la responsabilità delle informazioni che si forniscono, vuol dire – e mi ripeto – conoscere un argomento in modo approfondito non solo e non necessariamente da un punto di vista personale, ma conoscere anche quegli aspetti che non viviamo; vuol dire saper mantenere un atteggiamento da osservatore, neutrale, che non giudica ma spiega.

Fare divulgazione è raccontare in modo oggettivo ma comprensibile, padroneggiare un argomento dal punto di vista scientifico, tecnico o storico senza che questa conoscenza influisca negativamente sulla narrazione. Vuol dire usare con sapienza le parole perché esse sono lo strumento attraverso il quale comunichiamo in modo preciso e coinvolgente quelle informazioni che abbiamo in precedenza verificato.

Perché questo spiegone? Tutto questo discorso è nato leggendo l’ennesimo post di una persona autistica che cercava di illustrare il significato della parola “neurodiversità” dandone una spiegazione completamente sbagliata. E questo non va bene perché crea confusione, è disinformazione.

Esiste un modo estremamente semplice per sapere se le informazioni che diamo sono corrette o se stiamo dicendo una sciocchezza: ripercorrere il cammino di quella notizia e andare alla fonte o, quando è irraggiungibile, provare ad avvicinarsi a essa il più possibile consultando la letteratura disponibile su quell’argomento. In questo caso siamo fortunati, perché la persona che ha inventato la definizione di neurodiversità è viva, e ha scritto in diverse occasioni cosa questa parola significhi.

Verso la fine degli anni ’90 l’attivista autistica Judy Singer coniò il termine “neurodiversity.” Il problema è che questo termine molto spesso è usato come sinonimo di autismo e riferito alle persone il cui sistema nervoso è organizzato diversamente rispetto alla maggioranza a sviluppo neurologico tipico. Secondo l’autrice invece Il concetto di neurodiversità è l’equivalente neurologico della biodiversità e descrive la “variabilità illimitata della cognizione umana e all’unicità di ogni mente umana[2].

La neurodiversità quindi comprende sia gli individui il cui sistema nervoso ha seguito uno sviluppo considerato “tipico”, quanto coloro che vengono catalogati in base ad alcuni comportamenti particolari frutto di differenze specifiche del neurosviluppo, come ad esempio nel caso dell’autismo, della sindrome di Tourette, dell’ADHD.

Lo ripeto nel caso non fosse chiaro: neurodiversi siamo tutti, autistici e non, perché ogni cervello è differente dall’altro, e questo non lo dico io ma la stessa persona che ha inventato il termine neurodiversità, per cui se non siete d’accordo prendetevela con lei. Citare correttamente un’autrice è una forma di rispetto tanto verso l’autrice quanto nei confronti del pubblico, che ha il diritto di ricevere informazioni esatte. Per definire le persone autistiche è meglio quindi utilizzare i terminineuroatipica, neuroatipico”, che rendono l’idea della non-tipicità dello sviluppo del sistema nervoso nell’autismo e in altre condizioni, e sottolineano una differenza e non un deficit.

È davvero importante almeno provarci, a essere precise, anche se non sempre ci si riesce perché a volte possiamo sbagliare. E mi riferisco anche a tutte quelle persone nello spettro autistico che desiderano in modo disinteressato e appassionato far conoscere al mondo la propria condizione: ciascuna è libera di raccontare la sua storia, e ogni racconto in prima persona è un mattoncino che si aggiungerà a creare una cultura autistica, che contribuirà a far conoscere l’autismo come condizione personale. Però se volete fare divulgazione, se volete dare al vostro racconto individuale un valore generale e spiegare la condizione autistica in modo scientifico o critico o da un punto di vista socioculturale, allora dovete studiare, dovete essere in grado di leggere e di riportare correttamente le fonti che a cui fate riferimento.

E ricordiamoci le basi: neurodiversità e neuroatipicità non sono la stessa cosa.

NOTE
[1] https://www.treccani.it/vocabolario/divulgazione/
[2] Singer, J. (2019). What is Neurodiversity? NeuroDiversity 2.0. https://neurodiversity2.blogspot.com/p/what.html?m=1&fbclid=IwAR0WcAs9DopM8HMfKHD8RCNfXbXUTBFopCAz3rVkhxHsnMYXOQDYgLusFDI

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