La PBS, stazione televisiva pubblica americana, ha da poco lanciato un cartone animato che si chiama Hero Elementary. Si tratta delle avventure di quattro piccoli studenti di una scuola per supereroi, e uno dei quattro super-ragazzini è autistico.
La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, recita il detto. E infatti, nonostante le indiscutibili buone intenzioni dei produttori, non posso evitare di provare un profondo senso di sconforto nel leggere la notizia. No, non sono di quelli a cui non sta mai bene nulla, anzi, mi faccio andare bene fin troppe cose e questo me lo rimproverano in molti, ma pensare che io debba essere visto esclusivamente attraverso una lente che amplifica le differenze rendendole o difetti e mancanze oppure poteri speciali, è avvilente.
La creazione di gruppi ed etichette è necessaria alla nostra mente per mettere ordine nel caos degli stimoli che riceve costantemente; non discuto quindi il meccanismo incosciente della categorizzazione che, per raggruppare oggetti tanto diversi tra loro, deve appiattirne le differenze e amplificare o addirittura creare fittizi punti in comune, ma metto in dubbio la sua utilità quando è messo in atto coscientemente. Le buone intenzioni e la via dell’inferno.
Noi autistici siamo passati dall’essere descritti come individui inaccessibili e incomprensibili, incapaci di comprendere il mondo e di esprimersi, goffi e autolesionisti, a piccoli supereroi, giovanissimi medici geniali, estrosi ma asociali fisici teorici impacciati però tanto simpatici.
E mi domando: ma tra la tragedia umana e il genio, cosa c’è? Dove mi situo io, e insieme a me tutta quella stragrande maggioranza di persone neuroatipiche che non appartengono a nessuno di questi due estremi? Ripeto, non è che non mi stia bene nulla, ma anche nel caso dei superpoteri assistiamo alla creazione di uno stereotipo che non corrisponde alla realtà. Noi autistici non abbiamo nessun potere speciale semplicemente perché tra noi c’è la stessa varietà di caratteristiche che può esserci tra persone non autistiche, con l’unica differenza che il nostro sistema nervoso è in alcune aree organizzato diversamente rispetto alla maggioranza tipica.
Queste differenze fanno sì che tra noi persone autistiche esistano delle similitudini, le quali si esprimono essenzialmente attraverso una serie di comportamenti (che sono la cosa più facilmente osservabile dall’esterno) che abbiamo in comune, e questi comportamenti vengono appunto utilizzati in campo clinico per descrivere la persona autistica, diventando non solo comportamenti tipici di un particolare gruppo ma criteri diagnostici di una condizione di diversità dello sviluppo neurologico.
Tra i comportamenti che in campo medico vengono utilizzati per stabilire se una persona è autistica non ci sono superpoteri, ma troverete invece una valanga di “deficit” – che è una parola più gentile per intendere ciò che in campo medico è vista come “menomazione” e associata alla disabilità. La visione deficitaria dell’autismo, e di tutte le altre condizioni di diversità inclusa la disabilità, è frutto del punto di vista dell’osservatore.
Fino a oggi a osservare il (neuro)diverso c’è sempre stato il (neuro)normale, le cui caratteristiche rientrano in quella costruzione fittizia e puramente culturale definita come “normalità”. E dico culturale perché la normalità è definita in base ad alcune caratteristiche specifiche. Nel caso dell’autismo, si prende in considerazione il funzionamento neurologico e allora io autistico sono diverso dalla maggioranza, ma se invece prendessimo in considerazione esclusivamente il parametro “con quale mano scrivi”, rientrerei nella normalità, e a essere crocifissi sarebbero i mancini.
Poiché a parlare di noi sono quasi sempre gli altri, i non autistici, la descrizione che faranno di noi sarà sempre deficitaria. Insomma, se uno pensa che l’essere umano deve esprimere la propria socialità in un certo modo, deve guardare negli occhi l’interlocutore, deve avere una sensorialità che gli permetta di godere di suoni e rumori particolarmente intensi, di toccamenti e abbracci, di cibi dalla particolare consistenza e via dicendo, se questo è il modello di riferimento, allora qualsiasi deviazione da quel modello sarà vista come patologica, o comunque come una lacuna da colmare.
Poiché è estremamente difficile (e anche comprensibile) per chi è fatto nel modo A riuscire a capire come sia possibile che a quelli fatti nel modo B possano piacere determinate cose e non altre, o che gli individui B non riescano a fare alcune cose che gli A fanno automaticamente e viceversa, allora è facile comprendere come si formi l’idea completamente errata che i B siano difettosi.
A un certo punto però gli autistici hanno cominciato a farsi sentire, principalmente da quando si è scoperto che quelle famose caratteristiche, quei comportamenti così comuni al gruppo inizialmente definito come “autismo”, erano condivisi anche da altre persone che però riescono a esprimersi senza o con minori problemi di linguaggio. In alcuni casi invece è stato l’avvento della tecnologia che ha permesso ad autistici che non parlano di esprimersi con modalità alternative altrettanto valide.
Da quando noi autistici parliamo e scriviamo il discorso è iniziato a cambiare, soprattutto perché noi, insieme a tanti altri advocate (le persone che sostengono i diritti di un gruppo o di una minoranza) impegnati nel campo delle disabilità e di altre diversità, abbiamo fatto notare che diverso non vuol dire sbagliato.
Così, a poco a poco, lo stereotipo dell’autistico ha cominciato a cambiare. La definizione di sindrome di Asperger (fino al 2013 una diagnosi a sé, oggi parte dello spettro autistico) ha involontariamente contribuito a creare l’idea del piccolo genio, del bambino maldestro e poco sociale ma dalla memoria portentosa e dalle capacità in alcune aree al di sopra della media. Si è cominciato a notare che effettivamente, tra le caratteristiche di alcuni autistici, c’erano una certa propensione per la sistematizzazione e per la raccolta di informazioni quasi compulsiva. Si è giunti a definire l’idea di “interessi speciali”, ossia quelle aree della conoscenza nelle quali tanti di noi autistici sentiamo la necessità di tuffarci a capofitto, dimenticando il resto del mondo. E in effetti queste caratteristiche sono così comuni tra di noi da essere diventate criteri diagnostici di quello che oggi si definisce autismo di livello I.
Ma non si tratta di superpoteri, per niente. Io non ho il superpotere della musica o della scrittura, o della raccolta di informazioni o dell’apprendimento delle lingue. Quelle sono cose che mi piacciono, che mi riescono bene forse anche perché mi ci sono dedicato in modo ossessivo fin da bambino. Ma non sono l’unico a farle, anzi, è pieno di gente molto più brava di me che, persone autistiche e non autistiche. Poi magari esco di casa e mi perdo per andare a comprare il pane perché non ho assolutamente senso dell’orientamento, oppure esplodo in una crisi violenta perché quello seduto accanto a me in treno mastica la gomma. Non ho superpoteri e non ho deficit, sono semplicemente il risultato di tante caratteristiche diverse proprio come chiunque altro, a prescindere dall’autismo o da qualsiasi altra etichetta abbia appiccicata addosso.
Sono un po’ stanco di certe generalizzazioni facili. Questi stereotipi – anche se a volte creati a fin di bene – causano danni ancora più subdoli degli stereotipi apertamente negativi. Chi lo spiega ai bambini che guarderanno il cartone animato o agli appassionati di The Good Doctor che la stragrande maggioranza di noi autistici non vola né costruisce super-gadgets, non risolve uno pneumotorace a un bambino sul pavimento dell’aeroporto con un taglierino e non necessariamente può giustificare le proprie stranezze nascondendole dietro a qualità a volte geniali e altre quasi ridicole?
Già, perché il problema di questa idea dei superpoteri, delle doti eccezionali che sarebbero collegate all’autismo (doti che a volte esistono negli autistici come possono essere presenti anche in chi non è autistico) è che sono il tentativo di mascherare quei guasti, quelle “menomazioni” che continuano e essere lì agli occhi della cosiddetta normalità. E allora a volte per amore, altre per gentilezza o per semplice correttezza politica, si prova a bilanciare i “deficit” con qualche dote fuori dal comune.
Non si può pensare di sconfiggere gli stereotipi negativi a botte di stereotipi positivi, non funzionerà mai perché si alimenterà sempre una visione falsata della realtà. Noi autistici siamo tra noi tutti diversi, proprio come diversi tra loro sono gli italiani, i cinesi, le persone LGBT, i mancini, i biondi, i Down, i cosiddetti “disabili”. Ciascuno è uguale solo a se stesso, e far passare il messaggio delle qualità speciali non è la soluzione al problema della mancata inclusione della minoranza neuroatipica.
Non abbiamo bisogno di mostrare qualità eccezionali per essere parte del mondo, per sentirci membri a pieno titolo della società, abbiamo bisogno invece che ciascun elemento della comunità umana apprenda a non aver paura delle differenze, a non sospettare di chi appare diverso da quell’immenso, fragile e mutevole stereotipo che è la normalità.