l’attesa e il cambiamento

una clessidra a simbolizzare il valore dell'attesa

Una delle cose più importanti che ho appreso dallo studio approfondito della Musica è il significato dell’attesa, di quel tempo che riempie lo spazio tra la nascita di un’idea e la sua realizzazione, tra l’azione e la reazione. Questo tempo è estremamente flessibile; è talmente elastico e a volte si allunga tanto che pare spezzarsi. E ogni tanto capita davvero che si rompa, succede quando non resistiamo più perché i risultati non arrivano; si strappa, quel tempo, quando non riusciamo ad aspettare. Quando l’attesa si fa interminabile.

Ecco, a me la musica ha insegnato il senso dell’attesa, mi ha mostrato con la forza dell’esempio – altra cosa importante che mi ha insegnato la musica, la potenza dell’esempio – che in quel tempo a volte interminabile accadono cose, tante cose, alcune delle quali dipendono anche direttamente da me, e queste cose determineranno il risultato finale.

Quando ero ragazzino avevo la tendenza a volere tutto immediatamente, e se non riuscivo a ottenere subito qualcosa che desideravo particolarmente, esplodevo in meltdown epici. Non ero un bambino cattivo e nemmeno viziato, tutt’altro, ma non riuscivo a gestire questa cosa del tempo tra la nascita di un desiderio e la sua realizzazione. Mi accadeva anche con la musica: mi innamoravo di una sonata di Beethoven ma avevo appena cominciato a studiare il pianoforte, volevo suonare quel brano immediatamente come Arrau o Martha Argerich e compravo lo spartito. Poi correvo al pianoforte e andavo sistematicamente a schiantarmi contro il muro dell’attesa.

Non avevo le capacità tecniche per riuscirci e, anche se le avessi possedute, avrei comunque dovuto studiare quella sonata prima di arrivare a un determinato livello di precisione. E quindi? Niente, quindi appresi che l’attesa non è sempre uno spazio vuoto, non è una sala d’aspetto infinita e senza riviste da sfogliare, ma a volte è una fabbrica in piena attività, un campo dopo la semina. Quest’attesa in certe occasioni può essere davvero lunga, come gli anni di studio che mi ci sono voluti ad acquisire le abilità tecniche per affrontare quella sonata, o una ballata di Chopin, o una fuga di Bach.

L’attesa è un viaggio nel quale, alcune volte, io controllo il percorso e anche il modo in cui supero gli ostacoli imprevisti e le brusche frenate inaspettate, oppure decido le eventuali deviazioni quando questi ostacoli sono insormontabili, o addirittura ordino una ritirata strategica. E così, con questa idea ben chiara nella mente, tre anni fa ho accettato l’incarico di coordinatore del master che io stesso avevo abbandonato tre anni prima per quella che, inizialmente, avevo creduto essere una mia incapacità di relazionarmi col mondo, di gestire i rapporti con le compagne e i compagni di studio; mollai il master a causa della mia insofferenza verso attività didattiche che imponevano un forte contatto sociale e a volte anche fisico e verso un metodo di studio standardizzato e inflessibile che non ammetteva alternative.

Ma quello fu proprio il momento in cui ricevetti la mia diagnosi di autismo, quell’etichetta che mi permise di cominciare a vedere le cose sotto una luce differente, che mi spiegò quanto non fossi io a essere sbagliato, asociale, eccessivamente ansioso o stupido e incapace di partecipare a un lavoro di gruppo, ma fosse il mondo a non voler andare incontro alle differenze. Sì, proprio nel momento in cui avevo abbandonato il corso credendo di essere un incapace, grazie a quella diagnosi cominciai a comprendere che almeno una buona parte di ciò che percepivo come una mia incapacità era frutto dello scontro con un ambiente dai valori, regole e abitudini diversi dai miei. Non migliori, semplicemente differenti.

Così un giorno chiamai la direttrice del master e le dissi della mia diagnosi, le dissi che avrei voluto spiegarle i motivi di quel mio abbandono improvviso e che forse quella spiegazione le sarebbe stata utile nella sua attività di psicologa e musicoterapista, oltre che nella gestione del suo master universitario.

Ci sono voluti tre anni, tre lunghi anni in cui ogni lunedì mattina ci riunivamo e io le spiegavo l’autismo, le differenze, l’esistenza di funzionamenti diversi; tre anni per creare un linguaggio comune a due persone con modalità di funzionamento e interazione a volte completamente differenti.

A quel punto, dopo tanto lavoro insieme, mi arrivò la proposta di prendere il posto della coordinatrice uscente e occuparmi di tutti gli aspetti organizzativi e degli affari accademici del master. Ritornare nelle aule che avevano contribuito a farmi crollare in mille pezzi fino a richiedere l’aiuto di una specialista e giungere alla diagnosi di autismo, fu difficile. Compresi immediatamente che nonostante in quelle aule si studiasse per lavorare con la diversità, con persone dai corpi e dalle menti diverse dalla media, con bambinǝ e adultǝ che a volte non condividono le modalità di comunicazione della maggioranza, nonostante tutto in quell’ambiente la diversità veniva percepita come inferiore, difettosa. Anche lì, come in qualsiasi altro ambito sociale, le differenze erano viste come difetti e le persone differenti come difettose, povere creature da riportare verso una presunta “normalità” sulla cui esistenza però nessunǝ si soffermava mai a riflettere.

Ma il mio obiettivo era estremamente chiaro, la mia meta si delineò nel momento stesso in cui compresi che decenni di esclusione, bullismo e sofferenze attribuite al mio essere difettoso, alla mia incapacità di essere come gli altri, me li sarei potuti risparmiare se la società mi avesse trattato come pari, se non mi fossero state attribuite etichette volte a sottolineare costantemente una mia presunta inferiorità, a marchiare come difetto ogni differenza che mi caratterizzava. Il mio obiettivo, dal momento della diagnosi, è stato di aiutare le persone viste dalla società come diverse a non dover passare per la mia stessa strada, o almeno a poter superare determinate difficoltà sapendo di non essere sole.

Sul lavoro quest’obiettivo si è tradotto con l’intenzione di riuscire a cambiare la cultura aziendale – perché alla fine di un’azienda si tratta, seppure dedita alla formazione – a modificare da dentro quella realtà sociale che, tre anni prima, mi aveva escluso.

Non ho realizzato training, e nemmeno i programmi standardizzati e tutti uguali che oggi vanno tanto di moda in quello che sempre più si mostra come il business dell’inclusione. Non l’ho fatto perché i miei obiettivi non erano a breve termine, perché a me lo studio della musica ha insegnato il significato dell’attesa. Non l’ho fatto perché sono partito con l’obiettivo di creare un ambiente in cui tutte le differenze potessero convivere con la stessa dignità, in cui nessunǝ dovesse temere di essere esclusǝ o di non avere le stesse opportunità delle altre persone; io volevo creare una cultura in cui se sei diversǝ allora si cercano punti di incontro, perché nessunǝ si trova in una posizione di superiorità e quindi nessunǝ ha il potere di includere o escludere.

Tre anni di discorsi lasciati cadere lì senza insistere troppo, di esempi pratici e chiari, tre anni in cui ho piano piano modificato il linguaggio del gruppo con cui lavoro, le modalità di selezione e ammissione di alunni e nuovi docenti; tre anni in cui quando qualcosa non andava lo facevo notare in modo pacato ma risoluto anche durante riunioni ufficiali, attraverso una comunicazione chiara e sempre mettendomi in gioco, esponendomi personalmente, mostrando che la diversità non è inferiorità, che si può anche rinunciare all’idea di essere normali e cominciare a pensare che quell’ideale, nella realtà, non esiste.

Tre lunghi anni eppure sabato scorso, dopo la mia lezione sullo spettro autistico alle alunne e agli alunni del primo corso, mi sono accorto che qualcosa era cambiata. All’uscita dall’aula, due alunnǝ mi si sono avvicinatǝ e mi hanno confidato di aver ricevuto una diagnosi di autismo, così, senza problemi. E mi hanno detto anche di averne già parlato con la direttrice e di essere rimastǝ estremamente sorpresǝ dalla sua capacità di ascolto, dalla comprensione della condizione, dall’apertura verso l’essere differenti. Mi hanno detto che sentivano di trovarsi in un luogo accogliente.

Sei anni prima, per gli stessi motivi, io ho dovuto abbandonare quel master. Ho dovuto farlo perché il mio comportamento non veniva compreso, accettato, perché percepivo la diffidenza e lo scetticismo che accompagnavano ogni interazione tra me e la struttura o le compagne di studio. Sei anni fa mi trovai a dover spiegare da zero cos’è l’autismo, come cancellare quella visione patologica e deficitaria della diversità, eliminare lo stigma che accompagna chiunque sia differente dalla maggioranza. Un giorno dopo l’altro, con un obiettivo chiaro in mente, ho cambiato la cultura di un’organizzazione.

Lo ripete spesso Vera Gheno e lo sottoscrivo anche io: il “nudge”, la spintarella gentile, il suggerimento indiretto, funziona più delle imposizioni che arrivano dall’alto. Per cambiare una cultura bisogna avere pazienza, bisogna mettersi in gioco in prima persona, essere dispostǝ a esporsi con tutte le conseguenze che tale esposizione porterà. Una cultura la si cambia da dentro, cercando alleatǝ, promuovendo piccole modifiche ogni giorno, essendo capaci di attendere anche a lungo prima di vedere i segnali di un cambiamento mai imposto, di un cambiamento germogliato da dentro.

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