La stigmatizzazione della povertà

la fotografia di una strada i cui edifici sono fatiscenti, baracche, sullo sfondo il cielo nuvoloso e minaccioso

Opporsi al salario minimo, eliminare aiuti alle famiglie in difficoltà, ridurre le spese sui servizi per le persone disabili e poi l’uscita di oggi del ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare, che in Italia i poveri mangerebbero meglio dei ricchi. La stigmatizzazione sistematica della povertà non è una cosa nuova ma viene da molto lontano. Responsabilizzare chi si trova in condizioni socioeconomiche sfavorevoli ma anche minimizzarne le difficoltà, è roba vecchia.

Già l’economista Thomas Malthus, all’inizio del 1800, proponeva l’abolizione degli aiuti ai poveri perché avrebbero interferito con le leggi della natura. Non si fa un favore alla società aiutando gli elementi deboli a sopravvivere a spese degli altri, diceva Malthus. Quindi, secondo questa idea, la carità (gli aiuti, diremmo oggi) non è un favore agli individui appartenenti alle fasce meno abbienti della popolazione perché li rende pigri, indebolendoli nella spietata lotta per la sopravvivenza che è la vita. Non so se ricorda qualcosa.

L’idea malthusiana di lotta per la sopravvivenza avrà un’influenza enorme nello sviluppo della teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Charles Darwin, e verrà reinterpretata nella famosa frase “survival of the fittest” (sopravvivenza del più adatto, del più forte) da Herbert Spencer nei suoi Principles of biology del 1864, poi inserita da Darwin nella quinta edizione del 1869 del suo best seller On the origin of species, influenzando il pensiero di personaggi come Francis Galton, cugino di Darwin e creatore dell’eugenetica, e ponendosi come base per l’ideologia del libero mercato.

Ma per capire il perché di tanto accanimento contro la povertà, anzi, contro i poveri, dobbiamo inquadrare il momento storico in cui nasce questa discriminazione sistematica: la rivoluzione industriale, il momento d’oro del sistema capitalistico, momento in cui intere famiglie perdono i mezzi di produzione, le terre, gli animali, e si vedono costrette a svendere il proprio tempo nelle fabbriche, a lasciare le campagne per andare a vivere nei sobborghi affollati e insalubri delle città.

Il darwinismo sociale è un’ideologia borghese che permette di giustificare la diseguaglianza, il colonialismo e l’imperialismo di quel periodo, lo sfruttamento nelle fabbriche di lavoratori e lavoratrici, anche di bambini di 5, 6 anni per 12 o 18 ore al giorno, perché sostiene che se se sei povero, se il tuo corpo o la tua mente non funzionano come quella della media della popolazione, allora in qualche modo meriti ciò che hai. Ma questa idea serve solo a giustificare il suo opposto, cioè che se hai studiato, se sei riuscito ad accumulare una fortuna, se hai raggiunto una buona posizione economica e sociale è perché sei biologicamente migliore, più forte, perché sei naturalmente portato per ottenere di più. Perché te lo sei meritato. L’idolatria del merito, l’esecrazione del fallimento.

Dal 1800 a oggi non è cambiato molto. L’ideale alla base del sistema economico, politico e sciale attuale, il neoliberismo, continua a raccontarci di una società atomizzata i cui elementi, gli individui, si trovano a lottare da soli per la sopravvivenza, a competere costantemente. Dobbiamo essere la migliore versione di noi stessi, essere produttivi, dobbiamo curare la salute mentale anche quando a metterla in ginocchio sono le richieste di una società sempre più esigente, anche quando a farla vacillare è la prospettiva di un futuro nel migliore dei casi incerto. La responsabilità individuale all’ennesima potenza, la privatizzazione dello stress, come sosteneva Mark Fisher.

La solidarietà, che dovrebbe essere alla base della società, scompare. Chiedere aiuto diventa una debolezza inammissibile, un errore imperdonabile nell’era del personal branding. Perché se chiedi aiuto, se non riesci a tirare avanti, te la sei cercata, nonostante sia dimostrato che nascere poveri significhi quasi sicuramente morire poveri, e nascere in una famiglia benestante ce ti permette di studiare, di scegliere cosa fare nella vita, che ti fornisce una rete di contatti e supporti, una buona alimentazione e una sanità di qualità sia, quasi sempre, garanzia di migliori condizioni di vita.

Una società basata sull’idea di competizione è inevitabilmente una società delle diseguaglianze se questa competizione non si basa su una reale parità di opportunità, se non tiene conto del vantaggio con cui alcune persone iniziano la loro gara nel mercato della vita, dal momento che le dinamiche del libero mercato e della concorrenza individuale hanno assunto il ruolo di valori fondamentali anche nell’ambito sociale e individuale. Ma ammettere di gareggiare in vantaggio significherebbe perdere potere, e allora è più facile criminalizzare chi non ce la fa, colpa loro, se lo sono meritato.

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