Diritti o concessioni?

Alla fine del 2021 a Buffalo, New York, le lavoratrici e i lavoratori di un negozio della multinazionale del caffè Starbucks hanno votato a favore della sindacalizzazione del locale di cui sono dipendenti. Da quel momento l’azienda ha avviato una serie di rappresaglie contro gli impiegati colpevoli di aver richiesto che venisse loro concesso il diritto di associazione e di contrattazione.

Licenziamenti mirati verso i dipendenti che hanno promosso la sindacalizzazione di ormai 331 locali, aumenti di stipendio e altri benefit concessi solo a coloro che non hanno aderito ai sindacati, recentemente l’avvio di un sistema che permette ai clienti di lasciare la mancia attraverso il POS, ma anche questo a esclusione dei negozi sindacalizzati.

I diritti di lavoratrici e lavoratori sono il risultato di decenni di lotte, e fin dagli albori del capitalismo sono stati osteggiati tanto dai datori di lavoro quanto dagli stati che hanno adottato i principi del liberismo economico. Quando questi diritti vengono trasferiti dallo stato – che dovrebbe vigilare sulla loro applicazione – alle singole aziende, perdono il loro valore universale per diventare merce di scambio nelle mani dell’azienda, che può decidere di sospenderli o, come nel caso di Starbucks, di utilizzarli da un lato come incentivi alla fedeltà all’impresa, e dall’altro come strumento di ricatto, come punizione verso chi a questa imposizione di fedeltà si ribella.

I diritti dei lavoratori e delle lavoratrici non sono negoziabili, e subordinarli alle decisioni di CEO e consigli di amministrazione delle aziende significa trasformarli in qualcosa di differente, in concessioni benevole, in un ritorno a una gestione paternalistica che cerca di imporre sempre più la gestione antidemocratica dell’azienda sulla società.

L’erosione sempre più evidente dei diritti è un fenomeno che dovrebbe preoccuparci tutte e tutti. Invece, schiacciati da una retorica del merito e della competizione basata sul privilegio e sulla disuguaglianza, una retorica che stigmatizza come nullafacenti le persone disoccupate e come ingrate quelle che si rifiutano di lavorare per paghe da fame, ormai accettiamo la trasformazione dei diritti in concessioni come se fosse naturale, come se ce lo meritassimo, quasi con rassegnazione.

Nel frattempo le aziende si colorano d’arcobaleno e sfilano ai pride (finché abbracciare la causa sarà conveniente economicamente), ostentano sui loro siti iniziative contro lo sfruttamento del lavoro infantile, si vantano di utilizzare solo prodotti provenienti dal commercio equo e solidale ma alle persone che vi lavorano, e che permettono loro di accumulare profitti sempre maggiori, rifiutano i diritti basilari.

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