È da qualche giorno che ci penso, da quando ho letto la notizia di Brianna Ghey, la ragazza trans di 16 anni accoltellata e uccisa in Gran Bretagna. All’inizio la polizia ha escluso che si tratti di un crimine d’odio transfobico, ora invece non si esclude che Brianna sia stata uccisa perché transgender. Oltre all’assurdità del delitto, a rimbalzarmi nella testa da qualche giorno è una frase che ho ritrovato identica in diversi quotidiani e siti di notizie: “Potrebbe essere stata uccisa perché aveva scelto di essere una ragazza”. La ragazza avrebbe “scelto” di non identificarsi nel genere maschile attribuitole alla nascita.
La vecchia questione della scelta, l’idea che le identità di genere – come pure gli orientamenti sessuali e affettivi ma anche lo status economico e sociale, ad esempio – siano delle scelte individuali. Un’idea che potrebbe sembrare banalmente semplicistica, ma che in realtà nasconde l’influenza di un’ideologia dell’individualizzazione ormai così pervasiva da apparirci naturale. Secondo questa idea siamo individui razionali che competono gli uni con gli altri, ciascuno responsabile delle proprie scelte; ogni persona può decidere di migliorare la propria situazione, chiunque può farcela, basta volerlo, non esistono limiti, il tuo unico limite sei tu; tu puoi essere ciò che vuoi, è una tua scelta. Frasi che leggiamo e ascoltiamo quotidianamente, idee che gettano la responsabilità di tutto sulla persona, sulle presunte scelte che ciascun individuo – percepito come elemento isolato dal contesto sociale – compierebbe razionalmente.
Il problema di questa visione neoliberista è che realtà non è così semplice. Presupporre che determinate caratteristiche, che certi orientamenti o specifiche identità siano delle scelte individuali porta a sollevare la società dalla responsabilità che ha nell’escludere quelle identità, quegli orientamenti e caratteristiche, e contemporaneamente li delegittima. Ti bullizzano perché sei lesbica? Ti picchiano perché gay, oppure non trovi lavoro perché sei trans o fluidə? L’hai scelto tu. Certo, sono scelte che vanno rispettate, è un tuo diritto, ti dicono, ma sempre scelte personali sono.
Non si tratta di scelte e soprattutto, la complessità delle identità e delle inclinazioni della persona non può essere ridotta semplicisticamente a una scelta (e nemmeno deterministicamente alla sola genetica). Tra l’altro, se il non identificarsi con il genere attribuito alla nascita fosse una scelta, allora varrebbe anche il contrario: anche essere cisgender (identificarsi col genere attribuito alla nascita) dovrebbe essere una scelta, chiunque potrebbe provare a cambiare, anche solo per dimostrare al mondo che è vero, che si tratta di una scelta.
Ma sappiamo bene che la realtà è un’altra, che essere chi siamo dipende dalle nostre scelte in minima parte, che non basta dire “se vuoi puoi” per sollevare una persona dalla povertà economica nella quale si trova per motivi che vanno spesso ben oltre le proprie responsabilità; sappiamo che non serve a nulla e anzi può essere deleterio dire a una persona che “è tutta una questione di atteggiamento” e che se vuole può scegliere di stare meglio, o può scegliere la propria identità di genere o il proprio orientamento sessuale, perché non si tratta affatto di scelte. Tuttalpiù, si può scegliere di non nascondere determinati aspetti della propria vita, di renderli pubblici ed esporsi alle reazioni di una società non sempre aperta a convivere con le differenze. Ma anche qui c’è da riflettere: una persona cisgender e eterosessuale, ha mai dovuto decidere se dichiarare al mondo la propria identità o il proprio orientamento sapendo che facendolo si sarebbe esposta a discriminazione, bullismo, mobbing?
Il linguaggio che utilizziamo non è mai qualcosa di astratto, ha ricadute concrete sulla vita delle persone. Continuare a scrivere e a dire che una persona ha “scelto” di essere trans vuol dire responsabilizzare la persona della discriminazione e dell’esclusione che invece sono causate da una società che, con questo stratagemma, cerca di scrollarsi di dosso la responsabilità di tale discriminazione. E il discorso, con le dovute differenze da situazione a situazione, vale anche per gli orientamenti sessuali e affettivi, per la condizione economica, per il livello di studi raggiunti o per l’impiego che si svolge: è troppo facile parlare di scelte individuali, la condizione di ciascuna persona è qualcosa di complesso, è frutto dell’interazione di un numero enorme di fattori, e continuare ad alimentare una visione del mondo così semplicistica contribuisce solo a mantenere viva una narrazione distorta della realtà, una narrazione in cui la comprensione dell’alterità si ferma davanti alla presunta responsabilità di scelte che tali non sono.