Di normalità, libertà e privilegi

L'immagine di una curva gaussiana a simbolizzare la normalità

C’è un fil rouge che lega i discorsi di tante persone che, sia a destra che a sinistra, si stracciano le vesti lamentandosi di non poter più dire niente. È un leitmotiv, quello di una distopica “dittatura delle minoranze”, della fantomatica società censoria del Politicamente Corretto, che nasce da un timore profondo spesso inconscio: la paura di perdere potere.

Vedere scricchiolare la propria posizione di privilegio nella società, il rischio di diventare solo una tra le tante – e tutte ugualmente valide – espressioni dell’essere umano, sta generando un discorso sempre più insistente e trasversale.

In linea con questa tendenza è appena uscito un libro autopubblicato da Roberto Vannacci, generale dell’Esercito Italiano, uno sfogo mosso da quella che appare sempre più come la fatica di appartenere alla maggioranza, il peso del privilegio. L’uscita del libro, viste le tesi di chiaro orientamento ultra conservatore e i toni intolleranti, sta causando un dibattito piuttosto acceso, e su quello che sto leggendo in giro vorrei considerare due aspetti importanti che sono presenti anche all’interno del libro stesso. Il primo è la solita tiritera che vede una serie di personaggi (spesso paradossalmente da posizioni privilegiate come giornali, televisione, cariche pubbliche) lamentarsi che non possono più dire nulla. L’altro aspetto è un concetto di creazione piuttosto recente (parliamo della fine del XIX secolo), quello di normalità, particolarmente interessante soprattutto per il potere normativo che ha assunto e per l’arbitrarietà con cui vengono nel tempo stabiliti i parametri su cui tale normalità viene costruita.

L’idea che esista una dittatura delle minoranze poggia su una serie di assunti fallaci che hanno come unica base il cosiddetto “senso comune”, come chiarito dal generale Vannacci in un’intervista in cui spiega che il titolo “Il mondo al contrario” si riferisce “Al contrario rispetto al buonsenso, al sentire comune, alla normalità che si vuole distruggere. Quello che per la maggioranza è senso comune viene totalmente stravolto. Come la ragazza che soffre di ecoansia, che fa sembrare questa patologia un problema mondiale”[1].

Partendo quindi da basi solide e scientifiche come il senso comune, le teorie della dittatura delle minoranze si sviluppano generalmente attaccando a testa bassa concetti come il politicamente corretto, l’ideologia gender o l’imposizione di un linguaggio “inclusivo”. Insomma, qualsiasi cosa venga percepita come un attacco alla normalità e che mirerebbe ad appiattire e a eliminare le differenze che invece, secondo questa visione, sarebbero paradossalmente proprio i sostenitori delle teorie del senso comune a difendere dalla moltiplicazione delle identità e dalla loro pretesa di essere ascoltate, di esistere. Curioso, tra l’altro, come il riferimento all’identità come qualcosa di negativo avvenga solo quando questa sia contraria al “senso comune”, mentre viene utilizzata come vessillo culturale quando invece fa comodo, come in questo passaggio del libro di Meloni e Meluzzix in cui gli autori sostengono che “il rischio di una sostituzione etnica in una realtà non può non farci riflettere sul futuro della nostra nazione, della nostra identità ”.[2]

Una delle tesi su cui si basano coloro che paventano la cosiddetta dittatura delle minoranze è, come dicevo, che non si possa più dire nulla perché ormai qualsiasi riferimento al colore della pelle, alla provenienza etnica, all’orientamento sessuale, al genere, alla condizione di disabilità, ad esempio, vengono interpretate dalle persone a cui queste definizioni si riferiscono come un’offesa. E qui si invoca il Politicamente Corretto, questa presunta prassi progressista che consisterebbe nell’imporre (ovviamente sempre le potentissime minoranze al comando) un linguaggio e un pensiero in cui le differenze vengono azzerate a favore di una sorta di conformismo linguistico e culturale.

Ma partiamo dalle basi, perché la confusione è davvero tanta, cominciando dal concetto di “Politicamente Corretto”. Possiamo definirlo come “discourse capture”[3] ossia, secondo la studiosa Tessa Lewin, una strategia della destra conservatrice che, utilizzando parole o idee inizialmente progressiste, ne modifica il significato, a volte lo capovolge o lo sostituisce fino a risignificarle creando una narrazione opposta a quella iniziale. È un tentativo di creare un discorso reazionario dal sapore nostalgico, un richiamo a un passato idealizzato in cui era facile muoversi perché le cose avevano pochi nomi, nomi chiari, e a questi nomi corrispondeva un valore; un idilliaco passato in cui a distribuire etichette e a stabilire il valore di ciascuna etichetta era questa ideale maggioranza “normale”.

Federico Faloppa, linguista e docente di Studi italiani all’università di Reading, spiega in un articolo in modo semplice e lineare l’evoluzione del significato di “Politicamente Corretto”, un significato che nel XVIII secolo si riferiva letteralmente alla correttezza politica di determinate idee, al seguire correttamente la linea del partito. Politicamente corretto quindi nasce come espressione all’interno del discorso politico. Negli anni Quaranta del secolo scorso, Politicamente Corretto cominciò a indicare chi si uniformava in modo acritico alla linea del partito comunista ed è rimasta una definizione usata all’interno della sinistra finché, alla fine degli anni Ottanta, la destra conservatrice si è appropriata della definizione di “Politicamente Corretto” e, attraverso un’operazione di “discourse capture”, una sostituzione del significato iniziale, “invece di essere una frase che gli attivisti di sinistra usavano per criticare (e prendere in giro) le tendenze dogmatiche all’interno dei loro movimenti, la correttezza politica divenne un argomento per i neoconservatori, che riuscirono a persuadere l’opinione pubblica che il PC [Politicamente Corretto] costituiva un programma politico della sinistra che stava prendendo il controllo delle università americane e delle istituzioni culturali – e che loro [i neoconservatori], in nome della libertà e del Primo Emendamento della Costituzione americana, erano determinati a fermarlo”[4].

L’altro argomento su cui credo sia importante riflettere è il concetto di normalità. Il generale ha scritto nel libro “Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione!” poi, nell’intervista già citata sopra, si è difeso dicendo che nemmeno lui si considera normale spiegando che ha “fatto una carriera nei corpi speciali, non unità normali e sport più anormali possibili. Quindi sono in buona compagnia con tutti gli omosessuali del pianeta. Prima di quella frase parto dall’etimologia della parola: normalità significa rispondere ad una norma, una consuetudine. Non dobbiamo avere paura di certe espressioni: la normalità o anormalità non sono buone o cattive, ma rispecchiano delle statistiche. ”.

Ma non è proprio così. È vero, l’idea di normalità nasce nel momento in cui la distribuzione normale, concetto statistico, viene utilizzata nella misurazione della società e dell’individuo. Il problema è il valore che queste misurazioni assumono immediatamente, fin da quando l’astronomo Adolphe Quetelet comincia a metterle in pratica nella prima metà del XIX secolo, quando crea l’ideale di “uomo medio”, figura innaturale nata dalla misurazione statistica di alcune caratteristiche umane. Fin dall’inizio del suo uso fuori dall’ambito della geometria, l’aggettivo “normale” (che significava “perpendicolare”) ha acquisito immediatamente un valore positivo e, per contrasto, tutto ciò che non rientra nella categoria artificiale della normalità, ciò che veniva e viene descritto come anormale, assume valore negativo, diventa indesiderabile, va nascosto o rimosso dalla società.

Normalità ha fin dall’inizio un significato eugenetico, e infatti a proseguire i discorsi di Quetelet è stato, tra gli altri, proprio Francis Galton, cugino di Charles Darwin e creatore della definizione di eugenetica.

Definendosi egli stesso anormale, il generale Vannacci non considera le differenze di esclusione e discriminazione che accompagnano l’etichetta di anormalità quando è eteroimposta, cioè quando viene decisa e applicata dall’esterno e ha quasi sempre valore negativo, e quando invece è scelta dalla persona, spesso come caratteristica positiva che la distingue dalla massa. L’omosessualità è una categoria statisticamente minoritaria e viene considerata fuori dalla normalità; è ritenuta ancora da troppe persone innaturale in base a una concezione binaria che divide gli orientamenti sessuali umani in due categorie definite e contrapposte.

Crescere appartenendo a questa categoria sociale significa subire spesso discriminazione ed esclusione. Aver timore di essere insultati o pestati per la strada se si manifesta il proprio affetto verso la compagna o il compagno è uno di quei privilegi di cui molte persone omosessuali non godono, e non perché sia naturale o meno, ma perché è stata creata una narrazione che nega ad alcune persone il diritto di esprimere la propria affettività a seconda della “normalità” dell’affetto che vogliono manifestare. Discriminazione ed esclusione che si manifestano in tanti ambiti della vita delle persone non eterosessuali, dall’essere respinte dalla famiglia di origine alla violenza verbale e fisica, al mobbing sul lavoro e al bullying a scuola, alla negazione di diritti spesso basilari di cui godono le persone eterosessuali.

Sostenere, come fa Vannacci, di non essere normali perché si è scelto di fare sport o una carriera fuori dalla media, dalla norma, non è la stessa cosa che essere considerati anormali perché le proprie caratteristiche sono state cristallizzate nel tempo in una visione che, basandosi inizialmente su uno strumento descrittivo come la statistica, è diventata immediatamente prescrittiva attribuendo loro il valore dell’indesiderabilità. In poche parole, la normalità è un costrutto sociale, una categoria artificiale che però, col tempo, è divenuta sinonimo di naturale assumendo un valore normativo che crea esclusione e discriminazione.

In tutto il mondo stiamo assistendo a un rigurgito illiberale che cerca di zittire quelle voci che si discostano dal discorso normativo, quello della normalità e del senso comune. Un discorso che si basa sulla forza, sulla coercizione e sul vittimismo usando argomenti privi di logica e razionalità, un discorso populista e intimidatorio che, come ha scritto Vannacci, rivendica il diritto all’odio.

Di sicuro c’è una cosa: è vero, oggi è più difficile offendere qualcuno senza rischiare che ci venga fatto notare. Sicuramente l’immediatezza e la diffusione dei mezzi di comunicazione che utilizziamo rendono difficile la gestione delle reazioni alle nostre parole, reazioni che a volte possono essere fuori controllo, ma questo non ha nulla a che fare con il politicamente corretto e con le minoranze. Questa è semplicemente una modalità recente di interazione utilizzata in modo trasversale e che spesso può essere devastante, ma che non è prerogativa delle minoranze o della sinistra progressista, se ancora ne esiste una. Basta ricordare cosa è accaduto a Michela Murgia, alle reazioni disumane che ha subito per aver portato avanti la sua idea di libertà, agli insulti vergognosi che ha ricevuto anche da persone che sostengono ancora che non si possa più dire nulla.

Oggi si può dire quello che si pensa esattamente come ieri, solo che ad alcuni non piace che a parlare siano anche le cosiddette minoranze, e dobbiamo fare attenzione a non sottovalutare le reazioni che questa perdita di potere e privilegio sta generando in alcune parti della popolazione, perché una volta sdoganato un certo discorso, una volta “normalizzato” il diritto all’odio, il confronto può andare solo sempre di più verso lo scontro.

 

NOTE:
[1] Biloslavo, F. (2023, August 18). “Io razzista? Invenzione dei media. E sugli omosessuali è solo statistica.” ilGiornale.it. https://www.ilgiornale.it/news/politica/io-razzista-invenzione-dei-media-e-sugli-omosessuali-solo-2198023.html
[2] Meluzzi, A., Meloni, G., & Mercurio, V. (2019). Mafia nigeriana. Origini, rituali, crimini.
[3] Lewin, T. (2021). Nothing is as it seems: ‘discourse capture’ and backlash politics. Gender & Development, 29(2–3), 253–268. https://doi.org/10.1080/13552074.2021.1977047
[4] Faloppa, F. (2019) PC or not PC? Some reflections upon political correctness and its influence on the Italian language. In: Bonsaver, G., Carlucci, A. and Reza, M. (eds.) Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative. Italian Perspectives (44). Legenda, Oxford, pp. 174-198. ISBN 9781781888759

Leave a reply:

Your email address will not be published.

Site Footer