Uno per uno, tutti da soli

Un cartello di legno dipinto di verde attaccato su una staccionata con su scritto "private"

Quando pensiamo alla privatizzazione, pilastro delle politiche neoliberiste, ci viene subito in mente la svendita dei beni pubblici, la privatizzazione delle imprese statali, di servizi come la sanità e l’istruzione, ma raramente pensiamo a un altro aspetto della privatizzazione, quello individuale.

Nel suo libro Realismo Capitalista, Mark Fisher individua la privatizzazione dello stress come uno degli effetti del capitalismo neoliberista, ossia l’attribuzione all’individuo della responsabilità di gestire il proprio stress e le conseguenze sulla propria salute mentale del vivere in una società plasmata sull’imperativo della produttività e della competizione, sulla riduzione di servizi e reti di appoggio sociale, sulla solitudine a cui la persona, individualizzata e messa in competizione con tutto e tutti, appare inesorabilmente destinata. Insomma, il sistema ti stressa, però la responsabilità di risolvere il problema, è tua.

Il mito della responsabilità individuale solleva la collettività dalla cura reciproca e privatizza non solo lo stress, ma anche la solitudine; privatizza le difficoltà economiche e le conseguenze di una precarietà lavorativa che si riflette su ogni aspetto di un’esistenza a cui, giorno dopo giorno, viene tolta ogni speranza di futuro; privatizza l’assistenza e la cura delle persone disabilitate da barriere di ogni tipo, barriere poste nella loro vita da una normalizzazione sempre più pervasiva che si traduce in un abilismo strutturale e in un’inclusione paternalistica e, anch’essa, privatizzata.

Una dimostrazione pratica di quanto tale stato di cose sia ormai normalizzato emerge chiaramente se osserviamo le soluzioni che ci vengono proposte per risolvere i nostri problemi quotidiani, anche quando questi problemi sono causati da scelte politiche e sociali indipendenti dalla nostra volontà e dalle nostre possibilità. Si tratta infatti di soluzioni il cui peso ricade sempre sull’individuo, spesso con costi che solo la parte più benestante della popolazione può affrontare. Pensiamo, come già suggeriva Fisher, alla salute mentale, al costo delle sedute di psicoterapia e delle cure farmacologiche. Pensiamo alla povertà, sempre più diffusa anche tra chi ha un lavoro, e che in una narrazione di stampo malthusiano è additata come conseguenza di scelte sbagliate dell’individuo, e non di politiche che hanno eliminato ogni protezione, lasciando le persone inermi davanti allo strapotere di mercati e aziende che agiscono esclusivamente per massimizzare i propri interessi.

La privatizzazione dei problemi causati da un sistema che ha come unico obiettivo il profitto a ogni costo produce inoltre soluzioni apparentemente contraddittorie. Non gli solo esponenti politici e i rappresentanti delle istituzioni nei loro discorsi dal taglio sempre più aziendale, ma guru di ogni tipo sulle reti sociali e sugli scaffali delle librerie ci inondano di consigli su come essere produttivi in ogni scampolo di tempo, perché chi si ferma è perduto, guai a riposare, bisogna ottimizzare. Ci insegnano a programmare la nostra vita, a pensare per obiettivi, a vivere in un’infinita partita di Tetris in cui prevedere e pianificare in ogni istante, e se non ci riesci sono fatti tuoi. E allo stesso tempo, sugli stessi social e sugli stessi scaffali e negli stessi discorsi istituzionali, ci viene suggerito di vivere nel presente, di fare mindfulness, evitare di vivere nel futuro perché la vita è qui e ora e vivere proiettati in avanti aumenta il cortisolo e accorcia la vita.

Ma la contraddizione è solo apparente, se pensiamo che l’unico scopo di qualsiasi soluzione ai problemi delle persone nella società attuale è quello di renderli privati, individuali, di specularci sopra e sollevare il sistema da ogni responsabilità. La soluzione ai problemi delle persone, individui sempre più isolati in una società sempre meno solidale, diventa un privilegio. Chi può permettersi le sedute dalla psicologa, chi può permettersi il corso di mindfulness o semplicemente chi ha tempo da dedicare  al proprio benessere; chi può pagare per l’assistente personale, il viaggio accessibile, il corso di perfezionamento o la specializzazione; chi può acquistare un’auto per andare a lavorare lontano da casa, chi ha qualcuno a cui lasciare i bambini a casa per andare a lavorare; chi ha la fortuna di nascere nel posto giusto al momento giusto: loro, possono comprare la soluzione. E quando non puoi allora è colpa tua, te la sei andata a cercare.

Perfino l’inclusione è ormai una questione privata, uno spot pubblicitario, una parola vuota che le istituzioni e i mercati mostrano con orgoglio fino a che, però, della tua inclusione ti fai carico tu. È la narrazione dei super disabili o degli immigrati che si “integrano”, che vengono accettati solo se fanno cose, se producono e lavorano, se non sono un peso per la società, se riescono a superare quei limiti che limiti non sono, se da soli riescono a scavalcare tutte le barriere lasciate lì davanti a loro dal privilegio.

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