La “tirannia della presenza permanente”

lo schermo di un cellulare su cui compaiono le icone di differenti reti sociali

Ieri la sindaca di Barcellona, Ada Colau, ha annunciato il suo addio a Twitter e agli oltre novecentomila follower conquistati in 11 anni di attività sulla rete sociale.

Le ragioni, secondo Colau, sono fondamentalmente due:
1) perché Twitter è passato dall’essere un luogo di confronto e anche scontro dialettico e politico, a un ambiente tossico in cui aggressività e odio rendono impossibile il dialogo costruttivo,
2) a causa di quella che ha definito “tirannia della presenza permanente”.

Il secondo punto mi interessa particolarmente perché è indice di quanto oggi sia sempre più difficile parlare di diversità, di inclusione e equità senza rischiare di farlo in modo superficiale e inefficace.

La “tirannia della presenza permanente”, secondo la sindaca di Barcellona, è quel fenomeno per cui se un politico non è costantemente su Twitter, se non commenta immediatamente ogni avvenimento, viene criticato e giudicato inadeguato. A questo io aggiungo che tanto per questioni di algoritmi quanto per abitudine a un consumo di informazione compulsivo, e a una finestra di attenzione sempre più ristretta, se non sei costantemente presente online (non solo su Twitter) vieni penalizzato, rischi di perdere seguito, i tuoi contenuti gireranno sempre meno, la tua immagine ne risentirà.

Il problema più grande e di difficile soluzione è che le regole del nostro mondo stanno diventando sempre più standardizzate. Premiano determinate caratteristiche e comportamenti penalizzando la loro assenza ed escludendo di fatto non solo chiunque non condivide determinate scelte, ma anche chi per qualche motivo non può mantenere i ritmi richiesti dalla presenza online permanente.

Facciamo attenzione qui, perché le reti sociali non sono più un semplice passatempo, o almeno non lo sono per una fascia sempre più grande della popolazione. Da anni ormai il personal branding e l’idea indiscriminata che ciascuna persona debba essere imprenditrice di se stessa (a prescindere dal fatto che possa farlo o meno), hanno innalzato le reti sociali a un ruolo che va ben oltre il mero intrattenimento.

Questa tendenza è ormai insita anche nelle nostre relazioni professionali: l’apparire, il produrre costantemente; mostrare il proprio volto il più possibile per evitare di essere dimenticata e dimostrare di essere una persona attiva, affidabile, sorridente, antifragile, è divenuta la norma.

E allora mi domando: ma in un mondo che spinge chiunque a essere costantemente presente, a scrivere e commentare qualsiasi cosa pur di rimanere visibile e accontentare un algoritmo; in un mondo che incoraggia le persone a diventare sempre più uguali tra loro, come si fa a parlare di diversità, equità e inclusione?

Come la mettiamo con quelle persone che hanno difficoltà a scrivere tanto, a creare video e contenuti sempre nuovi? Che ne facciamo di quelle persone dal corpo non conforme ai modelli imposti dalla maggioranza? O di chi non riesce a gestire l’impatto emotivo di un’interazione costante, e spesso violenta, con un mondo che corre a velocità supersonica e poco si cura delle esigenze e caratteristiche altrui? Cosa diciamo a chi per una qualsiasi ragione non vuole, non può o non riesce a essere imprenditrice di se stessa, o a chi vorrebbe esserlo ma ne è impossibilitata per motivi fisici, psichici, neurologici, sensoriali?

Alcune persone non riescono a star dietro alla “tirannia della presenza permanente”, ma non le si può giudicare negativamente per questo. Non si può essere esclusi per essere diversi, non in un mondo che proclama ai quattro venti la necessità di far convivere le varie diversità, di quanto sia importante un ambiente diverso, talenti diversi.

Talenti diversi possono emergere solo da persone con caratteristiche diverse, da funzionamenti diversi, da visioni del mondo estremamente differenti. E alcuni di questi talenti hanno bisogno di solitudine, di ritmi più lenti, di poter osservare le cose senza fretta e da angolazioni differenti. Di tempo.

La “tirannia della presenza permanente” è un dato di fatto, una realtà innegabile. È una caratteristica della nuova società che si sta rivelando a noi giorno dopo giorno e che, se da un lato permette a voci un tempo silenziate di essere oggi ascoltate e a nuovi talenti di emergere ed essere notati, dall’altro discrimina qualsiasi persona non si conformi ai ritmi richiesti. Come ogni strumento relativamente nuovo, le conseguenze tanto positive ma soprattutto quelle negative del suo uso non sempre sono visibili immediatamente.

Se vogliamo realmente parlare di diversità nella nostra società e nel mondo del lavoro, cominciamo a riflettere sulla “tirannia della presenza permanente”, su quanto questa modalità stia creando una diversità fittizia, all’acqua di rose e conforme a determinati standard, una “normodiversità” (concetto che spiego esaustivamente nel mio dizionario minimo di diversità, In Altre Parole); diversità di facciata che nei fatti però crea maggiore esclusione tra chi è già esclusa in partenza.

L’inclusione delle differenze passa anche attraverso il riconoscimento di tempi differenti, di capacità e volontà di apparire differenti, di una diversità emotiva e relazionale che rischia di essere spazzata via dalla “tirannia della presenza permanente”.

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