La reciprocità e la narrazione della diversità

un disegno in cui otto mani coi colori dello spettro luminoso si uniscono

Reciprocità. Ultimamente questo è un concetto che mi gira per la testa costantemente. Reciprocità implica la biunivocità in un rapporto tra due parti; reciprocità richiama alla mente un’idea di parità.

Mi ossessiona, questa idea, perché non riesco a smettere di pensare a quanto la descrizione della realtà nella quale viviamo sia invece univoca, unidirezionale, impari. La realtà alla quale siamo chiamatǝ a partecipare è il frutto di una narrazione continua che è iniziata con la nostra casuale comparsa sulla terra, un racconto che si è evoluto nel tempo cambiando in modo anche radicale a seconda delle epoche. La realtà alla quale prendiamo parte, tutt’altro che oggettiva, muta come una maschera a seconda del volto del potere.

Non c’è reciprocità nella narrazione del nostro mondo perché tale narrazione viene creata dalla parte dominante di ogni gruppo a sua immagine e somiglianza, e attraverso quell’immagine osserverà e giudicherà tutte le altre come difettose. E così le femmine furono (furono?) maschi difettosi a cui mancava un pezzo e per le persone che hanno un colore della pelle differente dal nostro si inventò il concetto di razza, così da stabilire che la nostra fosse migliore delle altre. Chi funzionava in modo differente dalla maggioranza era folle, idiota, era guastǝ quindi andava riparatǝ anche utilizzando metodi che in contesti differenti non esiteremmo a definire tortura. E che dire di quell’interesse morboso per il sesso, quell’ossessione di volerci tuttǝ controllatǝ e controllabili attribuendo un valore morale a delle parti del nostro corpo? Anche lì, se ti discosti dalla narrazione della cultura dominante, sei anormale, sei unǝ eterosessuale mancatǝ.

Riflettevo sull’idea di reciprocità stamattina perché tra un paio di giorni alcunǝ di noi saremo investitǝ da questa narrazione univoca e impari che la maggioranza fa di ogni minoranza. Giovedì 18 febbraio ricorre la giornata mondiale della sindrome di Asperger[1], una definizione diagnostica che è stata eliminata dalla narrazione clinica nel 2013 ma continua a resistere soprattutto tra coloro che sono statǝ diagnosticatǝ come Asperger.

Ogni giornata a tema, soprattutto quando dedicata a una categoria minoritaria della popolazione come le persone disabili, lǝ infermierǝ, lǝ ammalatǝ di SLA, le persone sorde o quelle autistiche, presenta al mondo quella categoria attraverso l’interpretazione della maggioranza. Il racconto che giovedì i mezzi di comunicazione, la stampa, le catene di sant’Antonio su Facebook faranno dell’Asperger difficilmente sarà quello che una persona Asperger potrebbe fare di sé.

Giovedì, come ogni anno, leggeremo interviste a specialistǝ, a opinionistǝ che da un lato diranno che si tratta di una moda (fregandosene bellamente di ferire tutte quelle persone che, se sono arrivate a ricevere una diagnosi clinica, qualche difficoltà ce l’avranno) e dall’altro invece descriveranno l’autismo come una sciagura. Alcunǝ ci definiranno come superautistiche, spingendo una narrazione che vede quelli che nell’autismo classico sono difetti trasformati qui in superpoteri, scadendo quasi sempre in quella modalità comunicativa che viene definita “inspiration porn”.

nella maggior parte dei casi assisteremo a un racconto falsato della realtà, un racconto in cui manca quell’elemento che è invece fondamentale per una descrizione più rispondente al vero: la reciprocità.

E il punto è proprio qui, è nel potere enorme che detiene chi può decidere come alcune persone dovranno apparire agli occhi del mondo. Non c’è reciprocità laddove manca la parità, non esiste inclusione se c’è uno squilibrio di potere. Qualunque sia la maggioranza che prendiamo in considerazione, questa mancanza di reciprocità distrugge ogni principio di uguaglianza sociale.

Reciprocità vuol dire scendere dal piedistallo sul quale ci si è messǝ senza alcun motivo reale se non quello di avere ottenuto il potere di farlo (come, è un discorso a parte), e considerare che la narrazione che l’altrǝ può fare del mondo è altrettanto valida quanto la nostra.

Prendiamo ad esempio una delle caratteristiche dell’Asperger (dell’autismo in generale) più conosciute e, allo stesso tempo, peggio descritte rispetto alla realtà: la presunta mancanza di empatia. D’altra parte si sa, giusto? Le persone autistiche hanno un “deficit” dell’empatia, si legge un po’ dappertutto e lo dicono anche tantissimǝ illustri specialistǝ. Peccato che questa sia una falsa verità, il frutto dell’osservazione delle persone autistiche effettuata dalle persone non autistiche, le quali considerano quello della maggioranza come l’unico modo possibile di manifestare empatia.

Insomma, se ci limitiamo a osservare delle differenze e le giudichiamo in base a parametri che corrispondono al nostro modo di essere, ovviamente quelle differenze diventano automaticamente difetti. In questa osservazione manca reciprocità. Ma un’osservazione del genere non prende in considerazione alcuni elementi fondamentali, come il fatto che le differenze nell’organizzazione del sistema nervoso che rendono diverse le persone autistiche da quelle neurotipiche, possono portare a una socialità differente che utilizza regole, convenzioni e segnali non verbali differenti tra i due gruppi. E questo porta necessariamente a una diversa empatia, a una difficoltà “reciproca” dei due gruppi nell’interpretare tra loro i segnali sociali.

Questa idea, nota col nome di “problema della doppia empatia” è stata proposta del ricercatore autistico Damian Milton[2], e suggerisce quindi che non esista un deficit nella socialità e nell’empatia autistiche, ma semplicemente una differenza di interpretazione. Una differente interpretazione che, in una narrazione in cui non esista reciprocità, si traduce in: noi, maggioranza, abbiamo sempre ragione perché siamo noi a stabilire cosa è normale e cosa no. E visto che voi autisticǝ siete anormali secondo i nostri standard sociali, allora siete difettosǝ. Vi manca empatia.

Ora qui abbiamo un problema davvero grande che esemplifica in modo perfetto l’univocità della narrazione della maggioranza rispetto alle minoranze. Quando si parla con persone Asperger, si scopre che tra loro si definiscono empatiche, ma leggendo la letteratura scientifica sull’argomento e i racconti che ne fanno specialistǝ e maggioranza, le persone autistiche risultano prive di empatia.

Però, se cerchiamo un po’, possiamo imbatterci in una serie di articoli e studi che comparano l’empatia tra diverse culture (tra orientali e occidentali, tra statunitensi e iranianǝ) e i risultati variano a seconda che si considerino le differenze culturali o no. In pratica, agli occhi di unǝ occidentale, unǝ orientale ha una minore empatia, ma questo solo se i parametri per misurare l’empatia delle persone orientali sono gli stessi utilizzati per le occidentali. Curiosamente, anche lǝ americanǝ sembrano avere meno empatia dellǝ iraniane, poiché la società iraniana è più “sociocentrica” mentre quella statunitense appare essere più egocentrica[3].

Eppure, nonostante i risultati possano assomigliarsi, negli studi in cui l’empatia viene presa in considerazione tra diverse culture non si parla di deficit ma di differenze. Lǝ orientali hanno una “differente” empatia rispetto allǝ occidentali. In particolare, secondo uno studio[4], lǝ orientali mostrano un’empatia emotiva che causa angoscia e quindi la necessità di ritirarsi, di allontanarsi dalla causa di questo sentimento (già sentita, vero?), mentre lǝ occidentali mostrano maggiore coinvolgimento e partecipazione. Ora, se al posto di “orientali” si fosse trattato di Asperger (o autisticǝ), quelle differenze sarebbero state nominate “deficit”.

Giovedi 18 febbraio, il mondo si impegnerà in una narrazione dell’Asperger creata da persone non Asperger, un racconto di supereroi e disadattatǝ, di geni asociali, creature non empatiche ma che se le metti davanti a un computer, wow, vedrai che ti combinano! Giovedì ascolterete poche persone Asperger parlare sui media mainstream, perché la narrazione che l’autismo fa dell’autismo non corrisponde all’idea che la maggioranza ha di questa condizione, e allora non le si dà spazio. Eppure giovedì tante persone autistiche si racconteranno, come fanno durante il resto dell’anno, sui loro canali social attraverso video, articoli e post.

Il mio invito per giovedì è allora quello di andare ad ascoltare la narrazione delle persone autistiche, di cercarci ed entrare nel nostro mondo provando a osservare la realtà con reciprocità, provando a guardarci tuttǝ – noi e voi – come differenti espressioni di un’unica, immensa categoria: quella della diversità umana.

NOTE
[1] Dall’uscita del DSM-5 (il Manuale Diagnostico e Statistico dell’Associazione Psichiatrica Americana, quinta edizione) nel 2013, la sindrome di Asperger è stata inglobata nella più ampia categoria dei “disturbi dello spettro autistico”. Personalmente, preferisco essere definito autistico, ma quello delle definizioni è un argomento estremamente complesso che posso riassumere con: ciascunǝ si definisca utilizzando le categorie nelle quali meglio si identifica. Per questo motivo, in questo post utilizzerò indistintamente le due definizioni.
[2] Milton, D. E. M. (2012). On the ontological status of autism: the “double empathy problem.” Disability & Society, 27(6), 883–887. doi:10.1080/09687599.2012.710008
[3] Yaghoubi Jami, P., Mansouri, B., Thoma, S. J., & Han, H. (2018). An investigation of the divergences and convergences of trait empathy across two cultures. Journal of Moral Education, 1–16.
[4] Cassels, T. G., Chan, S., & Chung, W. (2010). The Role of Culture in Affective Empathy: Cultural and Bicultural Differences. Journal of Cognition and Culture, 10(3), 309–326. doi:10.1163/156853710×531203

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