Alcune settimane fa ho realizzato un sondaggio in cui chiedevo alle persone nello spettro autistico in che modo preferiscono essere definite e, allo stesso tempo, domandavo a genitori, amiche e amici, educatrici, professionisti, come loro definiscono l’autismo. Oggi finalmente ho trovato il tempo di andare ad analizzare i risultati.
A prima vista osservo i numeri e, da autistico che predilige l’uso del linguaggio denominato “identity-first” (cioè preferisco essere definito “autistico” e non “persona con autismo”) provo un certo senso di soddisfazione: la stragrande maggioranza delle persone autistiche che hanno risposto (79,8%) preferisce essere definita, appunto, autistica, contro un 15,5% a cui non importa la definizione e solo il 4,7 che preferisce il linguaggio “person-first”, ossia “persona con autismo”.
Mi sento soddisfatto anche perché la motivazione dietro a una scelta del genere per il 74,2% delle persone che hanno risposto è stata: “Trovo che l’autismo sia parte di me, non è qualcosa che possa essere eliminata né che abbia bisogno di essere ‘riparata’, e quindi mi definisce come persona insieme a tante altre caratteristiche”.
Giusto, perché, almeno per come la vedo io, dover specificare che oltre all’autismo c’è una persona equivale a voler dire che quella serie di caratteristiche che mi contraddistinguono dalla maggioranza della popolazione sono dei difetti, degli errori, e che al di là di quelle imperfezioni che vorrei non vedere su di me, esiste una persona normale, sana, senza l’autismo insomma.
Eppure, proprio quando penso al 4,7% di risposte che si allontanano diametralmente da quella che è la mia visione sulla questione, proprio quando dovrei essere felice di vedere confermata la mia ipotesi, e cioè che la maggioranza degli autistici e delle autistiche preferisce essere definita come “autisticə”, la parola “maggioranza” mi smorza il sorriso sul nascere.
Ci sono riuscito, penso, finalmente so di fare parte di una maggioranza. Certo, una maggioranza dentro la minoranza autistica, ma vuoi mettere? Dopo la soddisfazione iniziale mi rendo conto che gioire per una notizia del genere va contro quello che mi sono più volte trovato a difendere, e cioè il diritto delle minoranze di decidere del proprio destino anche, come in questo caso specifico, attraverso l’uso di un linguaggio dal quale si sentano definite.
È un bel problema questo, è uno di quegli enigmi che rischiano di creare più confusione di quanta sperassero di risolvere. Ma forse questo è un bene, forse quest’azione di rottura che il linguaggio a volte riesce a portare avanti è utile a generare riflessioni, cambiamenti, probabilmente è proprio la capacità a volte destabilizzante delle parole che utilizziamo a permetterci di evolvere il nostro pensiero.
La questione mi è estremamente chiara: è come una matriosca, in ogni minoranza esistono una maggioranza e una minoranza, e nella minoranza della minoranza una maggioranza e una minoranza e via così all’infinito. Io, che faccio parte di una minoranza, mi impegno affinché vengano riconosciuti determinati diritti al mio gruppo di appartenenza, porto avanti la mia idea circa il modo corretto di definire la categoria socioculturale dell’autismo, e spesso mi sono trovato a scontrarmi con chi la pensa diversamente.
E fin qui non c’è nulla di male, ma il problema reale arriva quando, per affermare la mia idea come se fosse una verità assoluta, vado contro i miei principi di equità e ascolto reciproco e tiro fuori la storia che, siccome la maggioranza delle persone autistiche preferisce essere definita “autistica” e non “con autismo”, allora tuttə dobbiamo utilizzare questa dicitura in quanto corretta, validata dalla maggioranza. Però, se volessi seguire questo ragionamento in modo coerente, allora dovrei smettere di scrivere articoli in cui denuncio un uso scorretto del linguaggio da parte della maggioranza neurotipica verso la minoranza autistica. Come non avrebbe senso sforzarmi di non usare il maschile sovraesteso in quanto espressione involontaria di una cultura che discrimina anche in base al genere.
Forse però il problema non esiste nella realtà, ma è una questione di forma, una di quelle questioni di forma tanto importanti che a lungo andare penetrano così a fondo da cambiare anche i contenuti. Proprio noi che ci esponiamo scrivendo, divulgando, cercando di rappresentare una minoranza, un’idea, dobbiamo fare attenzione a non cadere in questo controsenso. Non possiamo permetterci di predicare bene e razzolare male, altrimenti rischiamo di vanificare ogni nostro sforzo.
Io sono convinto che essere definito “autistico” mi rappresenti in quanto l’autismo è parte di me, non credo che determinate caratteristiche possano essere eliminate e non vedo perché dovrebbero, dal momento che in qualche modo io sono la persona che sono anche grazie a esse, nel bene e nel male. Essere definito autistico, e non “persona con autismo”, significa per me che quelle differenze che mi contraddistinguono dalla maggioranza sono appunto delle differenze alla quali non associo alcun giudizio morale o di valore: i miei sensi sono “differenti”, non deficitari; la mia modalità sociale e comunicativa è “differente”, non difettosa.
Essere definito autistico per me significa che dietro alla persona autistica non ne esiste una non autistica. Non è una questione di orgoglio, è riconoscere che le cose stanno così, è stare bene con la persona che si è, vivere la vita sapendo quali mezzi si hanno a disposizione, quali caratteristiche ci contraddistinguono e come sfruttarle al meglio. Come farebbe una qualsiasi persona non autistica, e lo dico proprio perché consapevole delle difficoltà più o meno grandi che ciascuna persona autistica incontra sul proprio cammino, siano esse frutto dello scontro con la società o di caratteristiche personali.
Per me. L’ho ripetuto molte volte: per me, secondo me, io penso. E il punto è questo, non vederlo significherebbe fare il gioco della maggioranza ed esercitare un potere sulla minoranza all’interno della comunità autistica cercando di imporre la mia visione in quanto condivisa da un numero maggiore di persone.
Durante una interessantissima lezione tenuta online giorni fa la sociolinguista Vera Gheno ha detto, a proposito del modo in cui esprimiamo le nostre idee, che non è una guerra, che se vogliamo creare un linguaggio inclusivo non dobbiamo combattere una guerra ma forse affidarci a quell’idea di spinta gentile, di incentivo (la cosiddetta “nudge theory”) che propizia il cambiamento in modo non impositivo. E qui sta il punto: se io mi impegno affinché le maggioranze smettano di imporre alle minoranze idee, comportamenti e linguaggio, non posso fare lo stesso gioco, proprio no.
E quindi, come facciamo? Perché effettivamente io continuo a pensare che il modo migliore per definire una persona appartenente allo spettro autistico sia proprio “autisticə”, come continuo a pensare che una persona mancina non è una persona “con mancinismo” e che se sei omosessuale non sei una persona “con omosessualità”.
Forse la soluzione sta nel continuare a portare avanti questa idea in modo pacato ma insistente, continuare a usare un linguaggio “identity-first” quando mi riferisco alla comunità autistica senza però voler imporre tale linguaggio a chi non è d’accordo, senza scadere nel giochetto di potere che ci fa tanto soffrire in quanto minoranza. Probabilmente il modo più corretto di interagire col mondo è proprio questo: spiegare le mie ragioni, usare un linguaggio che mostri coi fatti le mie idee in quanto frutto di un ragionamento e non perché condivise dalla maggioranza, riconoscere il sacrosanto diritto di ciascunə di essere definitə come meglio crede.
Significa questo che bisogna rinunciare a fare attivismo, a lottare per i propri diritti? No, divulgare e fare attivismo non necessariamente sono la stessa cosa o, almeno, non credo condividano gli stessi mezzi. Ritornando al rispetto per l’altrə, ciascunə decida dove collocarsi e che strumenti utilizzare, c’è chi preferisce lottare e chi crede che sia più produttivo spiegare, sono entrambe posizioni legittime e rispettabili. Ma quello che sicuramente dev’essere chiaro è che non si può difendere un’idea usando gli stessi mezzi di chi cerca di soggiogarci, abbatterci, annientarci. Inoltre non bisogna dimenticare che una cosa è il rispetto per il modo in cui le altre persone nella nostra stessa condizione desiderano essere definite, altro è cercare di spiegare anche con fermezza le nostre ragioni a chi dall’esterno, dalla maggioranza, cerca di affibbiarci degli stereotipi senza sapere quale effetto possano avere su di noi certe imposizioni.
Spiegare le proprie ragioni e difendere tali spiegazioni non ha quindi nulla a che vedere con l’imposizione delle proprie idee. Spiegare presuppone un ragionamento, non è possibile riuscire a farsi ascoltare adeguatamente se prima non si sono ascoltate le altre voci; non otterrò mai l’attenzione dell’altrə se parto dicendo che sbaglia, imponendo il mio punto di vista per quanto possa essere supportato da dati, studi, sondaggi e ragionamenti ineccepibili. Per interagire in modo costruttivo con l’altrə devo imparare prima di tutto ad ascoltare, a non giudicare secondo quei parametri che “per me” sono giusti.
E quindi “ autisticə” e “con autismo” è lo stesso? Sono davvero “solo” parole? No, non direi, una definizione continua a fare una gran differenza per la persona che se la vede affibbiare e con la quale deve convivere quotidianamente. E proprio perché le parole sono fondamentali e rivestono un’importanza vitale nella costruzione della realtà in cui ciascunə di noi vive, vale la pena domandarsi se imporre il proprio punto di vista abbia un senso, anche quando siamo convintə che sia quello giusto.
Immagino che per molte persone questa botta di relativismo 2.0 possa apparire eccessiva, me ne rendo conto e io stesso probabilmente qualche anno fa avrei giudicato certi discorsi eccessivi. Ma credo che sia giusto interrogarci su quanto, per una questione di principio perché non vogliamo ammettere la possibilità che le definizioni si evolvano insieme al linguaggio, vogliamo perdere l’occasione di provarci. Provare a cambiare quelle dinamiche secondo cui alcunə devono subire la volontà di altrə solo perché in base ad alcuni parametri scelti arbitrariamente, sono denominate persone “diverse” e quindi private del diritto di autodeterminazione.
Il riconoscimento della dignità dell’altrə passa necessariamente attraverso la rinuncia al potere che una qualsiasi maggioranza esercita sulle minoranze. Anche le maggioranze all’interno delle minoranze. E questo è ancora più importante in un momento come quello odierno in cui tanta possibilità di parlare ci fa spesso dimenticare l’importanza fondamentale dell’ascolto.