Un paio di settimane fa ho letto un articolo che cominciava così:
Nel 2020, ci sarà un cambiamento radicale nel modo in cui le persone autistiche vengono trattate in contesti professionali. Le aziende celebrano sempre più la diversità sul posto di lavoro – diversità di genere, etnia e capacità – e questo si estenderà anche alla neurodiversità: diversi tipi di cervelli e menti.
L’articolo prosegue elencando i motivi per cui le aziende dovrebbero assumere personale autistico, cioè l’incredibile attenzione ai dettagli, la capacità di sistematizzare, di risolvere problemi complessi in modo efficiente e tanti altri spettacolari punti di forza che, a leggere il pezzo, uno come me potrebbe pensare di aver sempre posseduto poteri sovrannaturali dei quali non si era mai accorto, e magari sentirsi pure un po’ coglione.
L’autore di questo panegirico a favore dell’assunzione di autistici è nientemeno che Simon Baron-Cohen, studioso della condizione autistica di fama mondiale che, a quanto pare, ha deciso di offrire il proprio contributo alla diffusione di questo nuovo, scintillante stereotipo sull’autismo che già da tempo dilaga sui mezzi di comunicazione anche grazie a diverse serie televisive.
Secondo questo cliché, l’autismo sarebbe una condizione i cui tratti caratteristici non sono più quella caterva di deficit sociali, difficoltà di comunicazione e assenza di teoria della mente a cui una narrazione prevalentemente medica (complice lo stesso Baron-Cohen) ci aveva abituato. Gli autistici, ultimamente, sono individui dalle menti matematiche, quasi dei computer attenti a ogni dettaglio; solitari geni dell’informatica e risolutori di problemi come nessun altro.
Per carità, è sicuramente più figo essere descritti come geni introversi e strambi che come silenziosi asociali malfunzionanti, ed è vero che alcuni di noi realmente mostrano certe caratteristiche descritte nell’articolo di Baron-Cohen, ma io conosco tanti autistici (me compreso) che hanno qualità assolutamente nella media. In parole povere, si tratta di una generalizzazione che non descrive le sfumature e le differenze che contraddistinguono ogni individuo nello spettro autistico.
Inoltre, questa narrazione (a cui ho dedicato già un capitolo del mio libro, Eccentrico) sembrerebbe essere applicabile esclusivamente a quella parte degli autistici definiti ad alto funzionamento, coloro che non hanno particolari difficoltà intellettive e riescono a svolgere una vita più o meno normale.
A questo punto, qualcuno potrebbe pensare che se fino a ieri mi lagnavo della visione prevalentemente deficitaria dell’autismo, del fatto che noi autistici non avessimo vita facile in ambito lavorativo, adesso invece mi lamento di questo cambiamento tutto sommato positivo che cerca di evidenziare i nostri punti di forza.
Valorizzare le caratteristiche di ciascun individuo (discorso che vale a prescindere dal neurotipo), è più che apprezzabile, ma questa visione che si sta cercando di far passare sembra aver dimenticato una parte importante della storia, ossia le difficoltà che impediscono a un grande numero di autistici di ottenere e mantenere un lavoro. Eppure certi problemi sono causati proprio dall’interazione con un ambiente lavorativo in cui non vengono prese in considerazione alcune nostre necessità.
Vorrei che si pensasse a noi come a persone, che si riuscisse a fare un discorso onesto che comprendesse l’autistico nella sua interezza, i punti forti e le debolezze, la capacità di risolvere un puzzle da 1000 pezzi in un nanosecondo e l’incapacità di prendere parte a una conversazione con più di due persone.
Qualcuno si è domandato che effetto avrà questa visione così superficiale di una condizione tanto complessa sulla nostra realtà lavorativa, soprattutto se non accompagnata da cambiamenti reali e pratici negli ambienti di lavoro? Io me lo domando, perché sono uno di quegli autistici che lavora, e i miei colleghi e superiori sono a conoscenza della mia diagnosi.
Me lo domando perché, prima di poter fare sfoggio delle mie scintillanti e sovrannaturali doti organizzative, ho dovuto preparare l’ambiente lavorativo al mio arrivo. Un processo durato mesi, in cui a poco a poco ho spiegato in che modo funziona il mio sistema nervoso, che determinate situazioni potrebbero portarmi verso un sovraccarico sensoriale o cognitivo o emotivo, e allora l’unica soluzione è andare immediatamente a casa. Ho dovuto spiegare che le riunioni per me sono un inferno e quindi, nei limiti del possibile, viva Skype e le email; ho raccontato che sì, interagisco e a volte riesco a essere molto divertente, che i miei seminari piacciono sempre tantissimo ma dopo un pomeriggio in classe devo correre a rifugiarmi a casa, o che per funzionare al meglio bisogna lasciarmi libero di seguire il mio modo di fare le cose.
È stato un processo in cui ho cercato di bilanciare quelle capacità che loro cercavano in me con le difficoltà che molto probabilmente prima o poi si sarebbero manifestate. E, nonostante la comprensione e la enorme buona volontà da parte dell’università, determinate situazioni di sovraccarico a volte sono inevitabili e, senza l’adeguata preparazione del datore di lavoro, risultano ingestibili.
Ciò che non funziona in questa narrazione che sta passando sempre più rapidamente è quindi l’incitamento ad assumere personale autistico tessendo le lodi del neurodiverso ma, allo stesso tempo, spendendo pochissime energie (ma davvero poche) nella preparazione pratica dell’ambiente lavorativo ad accogliere quegli autistici che si vorrebbero fare assumere.
Poiché nella mia vita ho fatto diversi lavori, tra cui l’agente di call center in un orribile “open space” in Olanda, io parlo con cognizione di causa. Questo stereotipo dell’autistico dai superpoteri finirà per essere deleterio a meno che non si faccia contemporaneamente un lavoro profondo e capillare di informazione e di supporto nelle aziende.
Viviamo in un’epoca in cui a partire dal colloquio di lavoro le qualità valutate come maggiormente positive sono le cosiddette “abilità sociali”, e la valutazione ovviamente penalizza chiunque non si conformi agli standard neurotipici.
Immaginate di dover selezionare il personale per un’azienda basandovi sulle regole standard e di trovarvi davanti un autistico. Questa persona probabilmente non stabilirà un contatto oculare adeguato ai vostri modelli, sarà estremamente ansiosa e avrà difficoltà di concentrazione dovute alle luci al neon, al rumore dell’ambiente o a mille altri possibili fattori di disturbo che alle persone “normali” non farebbero probabilmente alcun effetto.
Le meravigliose qualità che, secondo questa generalizzazione ormai così diffusa, l’autistico dovrebbe possedere, non avranno mai la possibilità di essere dimostrate nella pratica lavorativa se i selezionatori del personale non sono informati correttamente sulle necessità che questa condizione ci impone.
Una volta assunto, poi, il dipendente oggi deve essere un team player, deve andare con gioia alla birra aziendale del giovedì sera e socializzare coi colleghi, deve riuscire a concentrarsi in un ambiente rumoroso in cui le luci vengono sparate con un’intensità per molti autistici impossibili da sopportare. Negli uffici vengono seguite strategie aziendali che funzionano per la maggioranza neurotipica, e il rischio è che per quanto particolarmente dotato in un campo specifico, un autistico non riesca a seguire regole che trovi incomprensibili e veda semplicemente aumentare la frustrazione e diminuire la “produttività”.
Possiamo scrivere meravigliosi articoli che spiegano quanto faccia bene alle compagnie aprirsi alla neurodiversità, ma se poi a doversi adattare siamo sempre e solo noi neurodiversi, allora le chiacchiere stanno a zero.
Un altro lato di questo cliché che trovo personalmente insopportabile, inoltre, è che dovremmo essere tutti portati per lavorare coi computer. E se io fossi incapace, se non mi piacesse, se avessi invece delle doti incredibili in aree che sul mercato vanno di meno come l’arte, gli studi umanistici, l’artigianato? No, perché fino a ora le poche aziende che si sono specializzate nel selezionare personale autistico lavorano esclusivamente nel campo dell’informatica.
Mi ripeto, ma il concetto è importante: tutto questo rumore che si sta facendo sulla relazione autismo-mondo del lavoro ha bisogno di maggiore attenzione all’aspetto principale, che non è sponsorizzare le abilità peculiari di alcune persone nello spettro ma creare un ambiente in cui l’autistico venga realmente accolto e messo in condizione di lavorare serenamente.
Non crediate che sia incapacità di vedere le cose positivamente, la mia. Semplicemente io non credo sia il caso di accontentarmi, come autistico, di quello che si sta facendo, e in questo so di non essere l’unico.
Se ci si accontentasse, allora si rimarrebbe sempre in una dinamica abilista che vuole ogni minimo cambiamento apparentemente positivo essere in realtà una gentile concessione scesa dall’alto. Sarebbe come dire: visto che siete inferiori, accettate di essere assunti sulla base di alcune vostre caratteristiche che in questo momento il mercato vede come utili. Ringraziate per la possibilità che vi viene gentilmente offerta di produrre nelle nostre aziende e non fa niente se il luogo di lavoro e i colleghi dopo un po’ vi porteranno allo sfinimento perché nessuno si è preoccupato prima di spiegare che, per funzionare al meglio, avete delle necessità particolari.
Non posso accontentarmi del fatto che oggi si stiano vendendo come conquiste meravigliose delle concessioni dovute. Il lavoro è un diritto di tutti, ma come sempre sembra che siamo noi a pretendere l’impossibile.
Assumere un autistico non è meraviglioso e non rende migliori. Richiede uno sforzo da parte delle aziende e del personale, un lavoro previo di educazione, di adattamento delle strutture e delle procedure, perché (lo ripeto fino alla nausea) non basta dire che siamo degli esseri dalle qualità speciali, se una volta assunti cominciamo ad avere tanti di quei problemi che quelle qualità, qualora ci fossero, non si esprimerebbero mai al meglio.
La mia previsione è che il 2020 non vedrà cambiamenti così spettacolari nelle condizioni lavorative per gli autistici. Continueranno a essere pubblicizzate quelle due o tre aziende che, a oggi, hanno dato lavoro a poche decine di autistici e tutte esclusivamente nel settore informatico; si continuerà a dire che bisogna assumere autistici, che siamo una risorsa e abbiamo i superpoteri facendo discorsi che ormai rasentano l’inspiration porn (quando già non lo sono), senza spiegare che con questi poteri arrivano anche le supernecessità.
E il discorso ritorna inesorabilmente all’importanza della narrazione che si fa della realtà, a quanto sia importante fare attenzione a non raccontare mezze verità o sciocchezze se davvero si ha a cuore il benessere della società, di ciascun suo membro, compresi quelli appartenenti a categorie che, secondo alcuni parametri, sono statisticamente minoritarie.
1 comments On Superautismo e mondo del lavoro
Splendido e prezioso articolo, che centra perfettamente il punto. Ma mi permetto di aggiungere che ciò di cui hanno bisogno le persone con autismo, piano piano sta diventando esigenza generale, dato che il tratto autistico, poco o tanto, sta caratterizzando sempre più persone considerate neurotipiche. Aiutare l’autismo significa quindi aiutate la società in generale.