lo spettro autistico

Ci sono alcune domande che sistematicamente si ripropongono a ogni presentazione di Eccentrico, alle conferenze o alle lezioni all’università. Una di queste, forse la prima in classifica, riguarda proprio la definizione di “spettro” autistico.

Può apparire banale, ma per quanto io trovi che sia una definizione azzeccata, genera molti malintesi soprattutto tra chi si sta avvicinando al mondo dell’autismo. In particolare, credo che generi due equivoci: il primo è l’idea che “siamo tutti un po’ autistici”, e il secondo (che assomiglia molto al precedente) è che si possa essere “leggermente” autistici.

Per spiegare meglio la visione corrente di questa condizione, quella descritta nell’ultimo manuale diagnostico maggiormente in uso, il DSM-5, è importante comprendere proprio la definizione di “spettro”.

Questa nuova visione dimensionale dell’autismo va vista come un continuum, una serie di caratteristiche (definite sintomi, anche se non la trovo la parola migliore) che possono trovarsi in qualsiasi individuo, anche neurotipico. Per arrivare a una diagnosi è necessario non solo presentare un numero sufficiente di queste caratteristiche (stabilito appunto nei manuali) ma, e questa è la novità rispetto al passato, si guarda anche alla loro intensità.

In pratica, chiunque può presentare tratti caratteristici dell’autismo come la difficoltà a mantenere il contatto oculare, una marcata sensibilità ai suoni o agli odori, la necessità di seguire routine ferree o ancora la tendenza a immergersi in attività e interessi estremamente assorbenti e via dicendo. Ma non è sufficiente riconoscersi in una o più caratteristiche per ricevere una diagnosi. Bisogna che questi tratti particolari esercitino un’influenza sulla vita della persona tale da creare difficoltà oggettive.

Se l’ipersensorialità è tale da rendere impossibile seguire le lezioni a scuola o svolgere il proprio lavoro in ufficio, la cosa comincia a farsi complicata. Quando a questo aggiungiamo il distacco dalle proprie routine che genera un’ansia così intensa da rendere la vita insopportabile, o che magari a scuola il bambino studia esclusivamente le materie per cui nutre interessi particolari ottenendo un rendimento discontinuo e sotto la media, o che le differenze nella sfera sociale sono così marcate da rendere la socializzazione un’impresa quasi impossibile, abbiamo un quadro tale da poter emettere una diagnosi. Ovviamente va specificato che ho fatto solo un esempio che non ha alcun valore clinico, ma credo possa rendere l’idea ai fini di questa spiegazione.

Per questo, a chi mi dice che “allora siamo tutti un po’ autistici” rispondo di no, e spiego che se è vero che chiunque può presentare tratti caratteristici dell’autismo, questo lo rende semplicemente un neurotipico con una ipersensibilità tattile o uditiva, o con un’elevata ansia sociale ecc. E a chi mi parla di “essere leggermente autistico” perché magari, seppure con grandi sforzi spesso non visibili dall’esterno, si riesce a svolgere una vita apparentemente normale, spiego che quello che si vede potrebbe essere solo una parte della storia.

Ieri sera Eleonora Degano, la bravissima relatrice che mi ha accompagnato nella presentazione a Trieste, ha fatto un esempio che ho trovato estremamente calzante: ha suggerito di pensare a un iceberg. Quello che si vede fuori dall’acqua, i comportamenti più evidenti, sono solo la parte visibile, ma sott’acqua c’è molto altro. A volte la punta dell’iceberg affiora appena alla superficie e altre volte spunta dall’acqua come una montagna. Ma non bisogna mai dimenticare al resto, la parte sommersa che, soprattutto nei casi definiti ad “alto funzionamento”, è quella che può arrivare a rendere la vita estremamente complicata da gestire e, spesso, a rendere necessario un aiuto specialistico che possa fornire mezzi, strategie e supporto proprio per poter a maneggiare quelle caratteristiche meno visibili ma altrettanto intense senza le quali, e questo va ricordato, non si sarebbe potuti arrivare a una diagnosi.

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