L’inclusione comincia dalle piccole cose

Ieri pomeriggio avevo lezione di pianoforte con una mia allieva, una ragazzina autistica dall’incredibile orecchio assoluto. Poco prima dell’inizio della lezione la mamma mi dice che non se la sente, ha avuto una giornata pesante a scuola ed è crollata mentre erano per la strada. Il fatto è che sta crescendo, è entrata in quel periodo estremamente complicato che è l’adolescenza e le difficoltà nella sua giovane vita si stanno moltiplicando di giorno in giorno.

Ieri pomeriggio, dopo la telefonata con la mamma della mia allieva, mi è tornato in mente quel periodo della mia vita, e un brivido mi ha percorso la schiena.

L’esclusione del diverso comincia molto presto, sicuramente fin da quando si è piccoli. Ricordo di non avere mai legato coi compagni di scuola fin dall’asilo; giocavo da solo, avevo un amico immaginario e alla fin fine mi stava anche bene così. A quell’età si gioca tanto, le responsabilità sono poche, si ha ancora bisogno della mamma, della famiglia, e gli amici non sono così fondamentali.

Il vero incubo per molti di noi comincia proprio durante l’adolescenza.

Perché in quel periodo tutto si complica. Ma la cosa a cui spesso si dà poca importanza è proprio che a far sentire escluso il diverso non è necessariamente la scuola come istituzione e nemmeno i diritti negati o la mancanza di leggi adeguate a garantire l’inclusione. No, a quell’età, nel momento in cui con maggiore prepotenza si fa sentire la solitudine, sono le piccole cose di tutti i giorni a sbatterti in faccia la tua diversità. A volte impercettibili dall’esterno, ma che bruciano dentro e lasciano cicatrici che spesso non si rimargineranno mai.

Mentre i genitori giustamente lottano per una scuola più giusta, per i diritti dei figli, per garantirgli un futuro meno incerto di quello che gli si prospetta, i figli combattono contro l’affiorare alla coscienza della loro diversità. E questa presa di coscienza, che già era latente fin dall’infanzia, arriva a poco a poco, un lento stillicidio che quotidianamente fa crollare certezze, distrugge la stima di sé, alimenta quel desiderio di normalità, di serenità che probabilmente rimarrà lì per sempre, strisciando in sottofondo.

Tutti gli adolescenti hanno problemi, perché quello è il momento in cui le richieste della società, della scuola, della famiglia si fanno più pressanti. È durante l’adolescenza che le relazioni tra le persone si complicano, che si cominciano a vivere i primi amori struggenti, che nascono gli ideali, si lotta per la costruzione della propria individualità. E queste difficoltà non risparmiano ovviamente gli adolescenti autistici, solo che in questo caso non si hanno i mezzi per fare in modo che tutto segua un percorso più o meno “normale”.

Gli adolescenti parlano, gli amici si raccontano segreti e dubbi, cercano di capirsi, di comprendere quel mondo che gli sta esplodendo dentro e che da un lato li vuole ancora bambini ma, contemporaneamente, dall’altro li spinge a diventare adulti. I dubbi sono tanti e le amicizie in quel periodo sono fondamentali. Proprio per questo l’essere esclusi, ma anche escludersi volontariamente da quel confronto perché ci si sente inadeguati, fa male.

È difficile da spiegare quella sensazione di profonda solitudine, la consapevolezza di essere diverso dagli altri, di non riuscire a legare, a mantenere dei rapporti duraturi come fanno tutti. È difficile perché in quel periodo qualcosa del genere forse capita un po’ a tutti, ma quando sei veramente diverso, allora bisogna moltiplicarla per un milione e nemmeno rende l’idea.

Dicono che noi autistici non vogliamo socializzare e poi quando ci parli, con gli autistici, ti rendi conto che la storia è un’altra. Nascosti nel nostro mondo guardiamo quello che accade lì fuori, la scioltezza con cui i coetanei scherzano, fanno gruppo, parlano di cazzate che per loro non sono cazzate; osserviamo la naturalezza con cui cominciano a provarci con le ragazze e i ragazzi che gli piacciono, il dolore dei primi rifiuti e la capacità di passare oltre, di accumulare esperienza.

Molto spesso osserviamo con uno spirito analitico attento a ogni dettaglio perché mentre gli altri fanno le loro esperienze sul campo noi proviamo a capire, a imparare guardando, calcolando, ragionando.

Dicono che non vogliamo socializzare ma non è vero. Io avrei voluto essere come gli altri, quando andavo a scuola, mi sarebbe piaciuto saper essere normale, ma quelle rare volte in cui mi è capitato di stare in mezzo ai miei coetanei è stata una tortura. Mi sentivo a disagio, non sapevo come comportarmi, venivo deriso per il modo di vestire, per la pettinatura da nerd e perché ero noioso. Io funzionavo solo in gruppi estremamente ristretti formati da bambini più piccoli, perché lì potevo dettare io le regole e, soprattutto, essendo più grande in qualche modo riuscivo a farmi rispettare. E nemmeno sempre. Ma coi coetanei no, ogni volta che ci ho provato è durata poco, e alla fine mi sono ritirato per la fatica.

L’inclusione comincia dalle piccole cose. Dal non marchiare la diversità dell’altro come negativa, ad esempio. L’inclusione comincia con l’essere accolti in un gruppo di coetanei durante l’adolescenza senza sentirsi fuori luogo. Non è pensabile un cambiamento della società che non cominci proprio dal modo in cui i bambini e gli adolescenti si relazionano con la diversità.

Noi adulti, neurotipici e neurodiversi, siamo responsabili del modo in cui i giovani accoglieranno la diversità quando saranno adulti. Noi oggi possiamo educare i bambini e gli adolescenti a non far sentire inferiore chi non si comporta come ci si aspetterebbe, a cercare di capire invece di rifiutare e deridere. È compito nostro mostrargli che la diversità è parte della società ed è necessaria; siamo noi anche con il nostro esempio a dovergli insegnare a non giudicare negativamente qualcuno per come si veste o per il tono della sua voce, perché si muove su una carrozzella o perché ha degli interessi diversi dai nostri.

Le grandi battaglie sono fondamentali e vanno combattute, su questo non ci piove, ma ciascuno ha la possibilità di contribuire a costruire una società più accogliente riflettendo su quelle piccole cose di ogni giorno, evitando una battuta di cattivo gusto, mostrandosi aperto e desideroso di conoscere la diversità, soprattutto trasmettendo ai più giovani il desiderio di accogliere l’altro.

Spesso mi domando come sarebbe stata la mia adolescenza se avessi trovato dei compagni di scuola differenti. Se non avessi dovuto imparare a fingere di essere un altro pur di partecipare ogni tanto alla loro vita per sentirmi un po’ meno diverso, pagando per questo un prezzo altissimo, perché poi te lo domandi il perché tu non possa essere te stesso per essere accettato. Cosa ho che non va? Era la domanda costante quando la solitudine mi lacerava l’anima.

L’inclusione comincia dalle piccole cose. Non dimentichiamolo mai. Mai.

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