Nel mondo del lavoro esistono due realtà. La prima, per quanto segnata da precarietà, sfruttamento, fatica e spesso condizioni ingiuste o in alcuni casi disumane, riguarda la maggioranza delle persone ed è una realtà in cui il lavoro almeno è previsto, rientra nell’ordine sociale, è parte della narrazione condivisa. Si dà per scontato che a un certo punto si debba lavorare, è un passaggio necessario per essere considerate persone realizzate, membri a pieno titolo della società umana. L’altra, quella delle persone disabilitate, non si fonda sul diritto ma sulla concessione. In un sistema già succube delle storture di un capitalismo degenerato, in questa realtà il lavoro non è previsto, è qualcosa che ti viene concesso. Qualcuno ti lascia entrare. Ti include
Per le persone disabilitate da una società strutturalmente abilista, il lavoro è qualcosa che non solo va guadagnato in base alle competenze, ma per il fatto di essere differenti dalla maggioranza va giustificato. Rispetto a una persona non disabilitata con le stesse qualifiche, devi essere qualcosa in più: devi superarti, compensare, dimostrare che “nonostante tutto” sei un “valore aggiunto”, un “vantaggio competitivo”. Perché la tua presenza non è prevista, tu entri in un mondo che non è stato costruito pensando anche a te.
Lo vediamo chiaramente nella logica degli accomodamenti ragionevoli. Non si parte dal principio che l’ambiente di lavoro debba essere accessibile e accogliente per tutte le persone. Al contrario, si presume che il sistema vada bene così com’è, e che tu sia un’eccezione da gestire. L’accessibilità diventa allora una concessione subordinata alla “ragionevolezza” della spesa per l’azienda. In un sistema estrattivo, competitivo e iper-performativo come il nostro, il problema non è che un luogo di lavoro non sia progettato per tutti, ma quanto costi adattarlo alla tua presenza. Conta quanto incide quell’accomodamento sul plusvalore che genererai, non il fatto che lavorare è un diritto garantito dall’articolo 4 della Costituzione italiana, secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” Per molte persone disabilitate questo diritto resta sulla carta.
D’altronde l’idea di disabilità, come la intendiamo oggi, è il prodotto di un processo storico legato all’affermazione della modernità e del capitalismo. Prima, la disabilità non esisteva come categoria sociale e amministrativa omogenea, e le persone che oggi definiamo disabili erano trattate ed etichettate in modi diversi a seconda delle epoche e dei contesti. È con l’avvento della società industriale e la crescente centralità di un lavoro sempre più standardizzato che la diversità fisica, sensoriale, cognitiva e relazionale viene sistematicamente associata all’incapacità di lavorare secondo standard sempre più rigidi. La disabilità diventa così un “errore” rispetto a una norma costruita, e chi non si adatta viene escluso, medicalizzato, considerato un peso, o un problema da correggere. Questo meccanismo di normalizzazione ha giustificato e consolidato l’esclusione delle persone disabilitate dalla piena partecipazione sociale e lavorativa, trasformando la loro presenza in un’eccezione da gestire, non in una parte integrante della società.
E ancora oggi, quando si parla di inclusione lavorativa, il punto di partenza resta lo stesso: l’eccezione. Una persona disabilitata può essere assunta perché esistono delle quote, come quelle previste dalla Legge 68/99, che stabilisce l’obbligo di riservare il 7% dei posti di lavoro alle persone con disabilità nelle aziende con più di 50 dipendenti. Ma questa percentuale è ben lontana dal rappresentare la realtà: le persone disabilitate in Italia sono circa il 21,3% della popolazione, e secondo le stime meno di un terzo di quelle in età lavorativa risulta occupato. Il restante 65% non lavora.
Secondo la narrazione corrente se sei disabile non puoi semplicemente lavorare: devi avere qualcosa in più che compensi la tua “mancanza”, quel presunto difetto che ti rende differente. È la retorica del superdisabile: devi essere un genio, un’ispirazione, un simbolo di resilienza e di antifragilità o rappresentare un arricchimento culturale per l’azienda. Non si tratta solo della difficoltà, che riguarda chiunque, di trovare un lavoro. Per accedere a questa competizione già esasperata, una persona disabilitata deve dimostrare di poter “andare oltre” la propria disabilità.
In questo Primo Maggio celebriamo il lavoro, ma non dimentichiamoci di quelle persone che il lavoro non ce l’hanno – e forse non lo avranno mai – non per mancanza di capacità o volontà, ma perché la società continua a considerarle corpi estranei. E allora viene da chiedersi: se il lavoro è un diritto di tutte le cittadine e i cittadini, come può non esserlo per le persone disabilitate? Non siamo forse persone? Non siamo cittadine e cittadini di pieno diritto?
Dobbiamo costruire un mondo in cui il lavoro sia davvero un diritto per tutte e tutti. Nel frattempo, mentre oggi celebriamo la Festa delle Lavoratrici e dei Lavoratori, ricordiamoci di chi lavora senza che quel lavoro venga riconosciuto come tale, come il lavoro di cura non retribuito, spesso dato per scontato. Ricordiamoci di chi lavora in condizioni precarie, a volte disumane, di chi vorrebbe lavorare ma non può, e di chi non sarà mai considerata una lavoratrice o un lavoratore perché il sistema non ha previsto il suo corpo, la sua mente, la sua presenza.