la privatizzazione dello stress

Oggi si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, e credo sia il momento di affrontare l’ipocrisia di un sistema che, mentre celebra la salute mentale una volta all’anno, affonda le radici nella precarietà e nello sfruttamento delle nostre vite. Oltre quarant’anni di neoliberismo ci hanno insegnato che ogni aspetto della nostra esistenza può essere privatizzato, anche il nostro disagio interiore.

Mark Fisher, nel suo Realismo Capitalista, parla di “privatizzazione dello stress”, un meccanismo che ci porta a interiorizzare la colpa del nostro malessere, ignorando le cause sociali e politiche che lo generano. In un mondo che mercifica tutto, anche la nostra salute mentale diventa un problema individuale. Non è il sistema che ti schiaccia, sei tu che non sei abbastanza forte, resiliente, produttivo. Antifragile. E così la tua salute mentale è ridotta a una questione personale, privata, un difetto da correggere con forza di volontà e disciplina.

La soluzione? Ce l’hai dentro di te, ci dicono. Leggi un libro di auto-aiuto, partecipa a un corso di mindfulness, segui un coach motivazionale che ti insegnerà come essere efficiente, come produrre di più. Non importa che intorno a te crolli tutto: precarietà, sfruttamento, solitudine, la graduale ma inesorabile distruzione di uno stato sociale che da diritto passa a essere privilegio. No, ciò che conta è che tu impari a respirare, a organizzarti meglio. Ma il sistema, quello, resta immobile.

Ancora più ironico è il paradosso di un mondo del lavoro in cui, mentre ti divorano con ritmi insostenibili e obiettivi sempre più irraggiungibili, ti vengono offerti corsi per gestire lo stress che il lavoro stesso genera. Alcune aziende offrono supporto psicologico, cosa lodevole, se non fosse che non servono per cambiare un ambiente iper competitivo in cui i confini tra vita privata e lavoro sono sempre più sfumati, ma per insegnarti a sopportarlo. E se fallisci, se non reggi, la colpa è tua.

Fisher critica anche quella che è diventata l’industria della cura, delle multinazionali farmaceutiche che vendono soluzioni sfruttando il malessere che il sistema stesso crea, mentre terapie e pratiche di diverso tipo fanno passare l’idea che possiamo guarire attraverso lo sforzo individuale, ignorando le cause sociali del disagio. Il messaggio resta lo stesso: sei solə, e devi cavartela da solə. E se non ce la fai, vuol dire che il problema si tu, che non sei competitivə, che non hai grinta, non sei abbastanza. Intanto le disuguaglianze aumentano, le persone più vulnerabili vengono abbandonate e il sistema continua a nutrirsi delle nostre vite.

Tra l’altro, vale la pena riflettere su come la privatizzazione della salute mentale colpisca maggiormente le persone che più avrebbero bisogno di appoggio e assistenza, coloro che non possono permettersi di pagare terapie o sedute di mindfulness o yoga. Perché sono proprio le persone schiacciate dalla precarietà economica, quelle che faticano a trovare un senso a una vita senza prospettive, a essere tagliate fuori da un sistema che offre soluzioni a pagamento per problemi che esso stesso genera.

La salute mentale non può essere una questione privata, e nemmeno può essere un lusso per pochi; le persone non possono essere responsabilizzate del disagio generato da un sistema che, quello sì, è malato. La salute mentale deve essere un diritto collettivo, e va protetta a monte affrontando le diseguaglianze e i meccanismi che generano esclusione, disagio e solitudine, non mantenendoli in piedi per poi offrire semplici cure palliative.

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