La narrazione della neuroatipicità

Sia nelle lezioni all’università che in conferenze o alle presentazioni del libro, mi trovo sempre più spesso a parlare di inclusione, di comprensione delle differenze e di quanto sia fondamentale un cambiamento culturale per far sì che la neuroatpipcità venga compresa e finalmente considerata una variante nell’ambito della cosiddetta normalità.

Ripeto ormai senza sosta che, per comprendere le differenze, bisogna ascoltare proprio coloro che dalla maggioranza vengono etichettati come diversi, poiché sono gli unici in grado di spiegare la loro diversità dall’interno utilizzando una narrazione differente da quella a cui siamo abituati, permettendone una comprensione più aderente alla realtà e ricca di sfumature.

Come ho già detto più volte, per mettere in moto questo cambiamento culturale le parole sono fondamentali, esse hanno infatti un peso enorme nella formazione di idee non solo personali ma, inevitabilmente, collettive. Le parole trasformano il nostro modo di pensare, di guardare il mondo, di decifrare le emozioni e i sentimenti; attraverso di esse interpretiamo e costruiamo la nostra realtà. Le parole, col tempo, creano consuetudini e possono finire per giustificare ciò che poco prima pareva ingiustificabile, ma sono allo stesso modo capaci di rendere normale ciò che sembrava anormale.

Per comprendere meglio il potere delle parole sulle idee e le conseguenze che esse hanno poi sulle azioni, possiamo farci aiutare dalla finestra di Overton.

Questo concetto mostra come la gamma di idee che il pubblico è disposto a prendere in considerazione e ad accettare sia limitata, un po’ come se guardando da una finestra vedessimo solo il cespuglio di rose che abbiamo davanti. La finestra però si sposta nel tempo, includendo nel suo campo visivo cose che prima non riuscivamo a vedere ed escludendone altre che invece erano visibili e rappresentavano un panorama familiare, normale.

Se spostassimo la finestra potremmo arrivare a vedere un’aiuola di margherite di cui prima nemmeno conoscevamo l’esistenza, ma perderemmo dalla nostra visuale le rose.
Ciò accade perché la posizione della finestra è soggetta alle tendenze sociali e culturali, e qualsiasi movimento che punti a un cambiamento di una certa rilevanza deve prima di tutto spostare la finestra di Overton per poter entrare nel suo campo visivo ed essere preso in considerazione. In pratica, se prima non riusciamo a rendere un concetto normale, a farlo diventare familiare alla gente, non possiamo sperare in alcun cambiamento sociale profondo, anche a livello politico, perché la società lo vedrà come troppo estremo.

Lo spostamento di questa finestra immaginaria avviene prima di tutto attraverso un cambiamento del linguaggio a cui siamo quotidianamente esposti perché, nonostante molti continuino superficialmente a sostenere che le parole siano meno importanti dei fatti, sono proprio le parole a rendere i fatti accettabili, normali, consueti. Questo tanto nel bene quanto nel male.

L’uso di un linguaggio appropriato nel descrivere la diversità gioca quindi un ruolo particolarmente importante nella formazione di una coscienza collettiva che accolga e includa le differenze come parte di un tutto estremamente eterogeneo.

In questo blog mi riferisco in particolare a un tipo specifico di diversità, quella neurologica, che include anche l’autismo. Mi stanno particolarmente a cuore i diritti delle persone neuroatipiche, tra le quali mi trovo anche io, e sono preoccupato dal fatto che ancora oggi la nostra realtà viene raccontata e spiegata quasi esclusivamente da coloro che la osservano solo dall’esterno. Noi, i diretti interessati, abbiamo una visibilità estremamente limitata e, cosa che parrebbe andare contro ogni logica, veniamo spesso ritenuti poco attendibili a meno che non ci limitiamo a interpretare e assecondare quegli stereotipi che i neurotipici hanno creato su di noi e che rientrano nel campo visivo della loro finestra, che sono cioè per loro familiari.

Ovviamente, a prescindere dal proprio neurotipo, chiunque dovrebbe avere a cuore la protezione dei diritti umani e civili di tutti, anche perché tali diritti non sono qualcosa di oggettivo, non sono il frutto dell’evoluzione biologica ma il risultato di una narrazione intersoggettiva che muta col mutare della cultura.

Poiché sono convinto che il diritto di autodeterminazione e autorappresentanza siano sacrosanti per chiunque, trovo che lo siano a maggior ragione per quelle categorie che ancora oggi non ne godono appieno. E una di queste categorie è quella degli autistici.

Le parole che una persona normale può utilizzare per raccontare la diversità di un amico, di un figlio o di un paziente neuroatipico (senza voler sminuire l’importanza di questa narrazione, quando corretta) mostreranno sempre e solo una descrizione di come la normalità vede la diversità. Sarebbe utile invece vedere la normalità semplicemente come un concetto statistico, un termine che indichi cioè la maggioranza, senza nessun giudizio morale o di valore, ma per arrivarci bisognerebbe saperne di più su quella che, sempre statisticamente, viene definita diversità.

Per cominciare, può essere utile ad esempio spiegare che l’autismo è sì uno, ma si può manifestare in tanti modi diversi quanti autistici esistono sulla terra, ognuno differente dall’altro eppure tutti accomunati da una serie di caratteristiche che ne stabiliscono l’appartenenza a un gruppo definito.

Bisognerebbe inoltre rivedere il concetto di inclusione, prima di tutto mandando in pensione l’idea di integrazione ancora tanto in voga oggi.

Si continua a parlare di inclusione senza considerare che non è un fenomeno che si possa imporre dall’alto o concedere con magnanimità. L’inclusione presuppone una comprensione delle differenze che naturalmente esistono, sono sempre esistite e sempre esisteranno in ogni società e cultura. Differenze di ogni tipo, di carattere etnico, culturale, politico, di orientamento sessuale e di sviluppo neurologico, e tale comprensione passa per una narrazione onesta, diretta e soprattutto corretta.

Più che a una vera inclusione invece oggi assistiamo a un fenomeno di ghettizzazione in cui il neuroatipico, grazie a una narrazione fondata su un linguaggio infarcito di stereotipi e luoghi comuni, viene interpretato come un malato, una persona da riparare o – cosa non meno dannosa – una persona speciale.

Sul tema tanto sentito dell’inclusione sono nate associazioni PER le persone da includere, si fanno proposte, si riuniscono comitati a volte politici, altre di specialisti, il tutto gestito da persone che, sicuramente in buona fede e desiderose di aiutare coloro che vedono esclusi dalla società, si sforzano di interpretarne i pensieri e i sentimenti.

Personalmente devo dire che sono piuttosto stanco di essere rappresentato quasi esclusivamente da chi l’autismo lo osserva da fuori. Di questa narrazione credo che ne abbiamo a sufficienza, ora trovo necessario arrivare a una maggiore visibilità dei diretti interessati anche grazie all’aiuto e al sostegno della parte normale della società.

Non ce la faccio più a leggere libri che si fregiano di raccontare l’autismo da dentro e invece sono scritti dalla madre[1] di un autistico (che, a rigor di logica, lo vede da fuori, per quanto vicina all’argomento possa trovarsi), o peggio ancora libri scritti da madri che parlano di “gravissima e inquietante problematica dell’autismo ad alto funzionamento” senza preoccuparsi di quanto dannose siano certe parole sulla formazione di un’opinione pubblica priva di pregiudizi.

Io, autistico, neuroatipico, Asperger, chiamatemi come vi pare, soffro di violenti attacchi di gastrite ogni volta che leggo certe descrizioni della mia condizione fatte da persone che, di ciò che sperimento durante un sovraccarico sensoriale o cognitivo, ad esempio, osservano solo le conseguenze visibili dall’esterno.

Non vorrei però essere frainteso, non dico che la narrazione della neuroatipicità che viene fatta da quella parte di popolazione neurotipica sia sempre sbagliata o che dovrebbe essere eliminata, al contrario. È una parte fondamentale del discorso, però a questa andrebbe affiancato con la stessa visibilità e credibilità il racconto della neuroatipicità in prima persona. Auspico quindi un confronto sulle necessità e sui desideri di tutti, altrimenti ci troveremo sempre al punto di partenza: una parte che cerca di imporre all’altra la propria visione del mondo.

Ma c’è un problema enorme, gigantesco, un problema tanto grande che paradossalmente, forse proprio per la sua enormità, nemmeno si riesce a vedere: nella stragrande maggioranza dei discorsi, delle conferenze, tavole rotonde, gruppi di studio, commissioni parlamentari, associazioni, il neuroatipico NON c’è. Non è interpellato, non ha diritto di parola.

Nella maggior parte dei discorsi sulla neuroatipicità, noi neuroatipici non veniamo presi in considerazione.

Esistono associazioni a favore dell’autismo in cui gli autistici nemmeno sono ammessi. Nei gruppi di studio formati da specialisti, gli autistici non entrano se non in casi rarissimi. Si propongono cure per l’autismo che, oltre a ribadire l’idea sbagliata che questa condizione sia una malattia (spiego QUI perché non lo è) e che quindi sia possibile una guarigione, non hanno nessun fondamento scientifico; si decidono politiche e linee guida sulla base di studi i cui obiettivi sono spesso stabiliti senza tenere conto del parere di chi, forse, sull’argomento potrebbe saperne qualcosina in più.

Per come la vedo io, non esiste inclusione senza la possibilità di autorappresentanza della diversità. Il discorso sull’inclusione deve spostarsi necessariamente anche sul piano culturale e sociale ma può farlo solo ascoltando le parole di chi ancora oggi viene considerato diverso, perché altrimenti la finestra di cui parlavamo sopra non riuscirà mai a spostarsi, e il punto di vista dei neuroatipici non diventerà mai familiare per la maggioranza della popolazione neurotipica.

È necessario riuscire a generare un discorso chiaro ed efficace che mostri al mondo chi siamo, quali sono i nostri punti di forza e soprattutto quei punti di attrito tra la maggioranza neurotipica e la minoranza neuroatipica che creano esclusione trasformandosi spesso per noi in disabilità.

Non è possibile creare inclusione se le differenze continuano a essere chiamate deficit anche quando non lo sono, se il diverso suscita sentimenti di compassione o, all’opposto, se certe caratteristiche sono erroneamente descritte come superpoteri. Cosa me ne faccio io di un paio di superpoteri quando poi le mie abilità sociali vengono liquidate come deficitarie solo perché così le descrive il linguaggio medico corrente, col risultato di sentirmi sempre in difetto rispetto agli altri?

So bene che questo discorso potrà apparire a molti come eccessivo, e se ciò accade è proprio perché le parole che ancora oggi si usano per rappresentare la neuroatipicità sono quelle di una normalità che la descrive dal proprio punto di vista.

Mi auguro davvero che a poco a poco, con l’aumentare delle nostre voci, la società cominci a vedere le differenze come qualcosa di familiare, invertendo finalmente questa tendenza verso una falsa inclusione condizionata alla normalizzazione di comportamenti che non vengono compresi nella loro essenza.

Vorrei chiudere con una considerazione che nasce dalla lettura di alcuni commenti sulle reti sociali: chi dice che determinate questioni come quella dell’autodeterminazione e autorappresentanza delle persone neuroatipiche (discorso che si può applicare alla diversità in generale) non abbiano nulla a che fare con la politica, sbaglia. Nel momento in cui si parla del diritto di decidere della propria vita, di rappresentare se stessi, di essere inclusi e non discriminati, si sta già facendo politica. Altro discorso è dire che non bisognerebbe legare certi discorsi a specifiche realtà politiche.

 

Note:

[1] Hilde de Clerq. (2011). L’autismo da dentro. Una guida pratica. Ed. Erickson

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