Il semolino di Halloween

Quando sono nervoso diventa estremamente difficile mantenere il controllo su ogni cosa e accade che, come per magia, quella parvenza minima di normalità ottenuta grazie ad autocontrollo e disciplina, oltre che all’attenzione costante, comincia a vacillare pericolosamente.

Se la pressione della quotidianità supera il limite di guardia per un motivo qualsiasi (che può andare da problemi sul lavoro, difficoltà economiche, vicini troppo rumorosi o semplicemente essere andati a una festa di compleanno…) allora, come dice Maurizio, comincio a diventare più autistico del solito.

Uno degli effetti più evidenti dell’eccesso di stress, almeno su di me, riguarda la coordinazione dei movimenti. In pratica, io vorrei fare una cosa ma ne viene fuori un’altra. Vorrei portare il bicchiere alla bocca e bere un sorso d’acqua come faccio senza incidenti più o meno sempre, ma la mano si gira prima che il bicchiere sia arrivato alle labbra oppure la bocca si apre troppo tardi, rovesciandomi l’acqua addosso. Oppure, come giovedì sera, la famigerata notte di Halloween, il tentativo di mangiare due innocue mandorle può trasformarsi in una sanguinosa serata a tema. Ma prendiamola  alla larga e cerchiamo di capire di cosa si tratta.

Questa difficoltà – che si chiama disprassia – influisce sulla coordinazione motoria e la visione spaziale, ed è spesso associata alle condizioni dello spettro autistico.

Qui faccio una breve parentesi per ribadire l’importanza delle etichette diagnostiche quando utilizzate correttamente, perché riescono a contestualizzare comportamenti che altrimenti verrebbero semplicemente visti come “difettosi” o “problematici”, e di conseguenza puniti o comunque oggetto di scherno. Poter dare un nome a determinati comportamenti ci dice che quella particolare cosa esiste anche in altre persone, esiste come conseguenza di qualcosa e spesso ci sono delle strategie che volendo si può decidere di utilizzare per minimizzare o controllare gli effetti della condizione etichettata, quando questi effetti incidono negativamente sullo svolgimento della quotidianità.

D’altra parte è altrettanto importante ricordare che queste stesse etichette diagnostiche possono essere usate in molti modi sbagliati. Ci si può adagiare su di esse e utilizzarle come una scusa o una giustificazione, e questo per quanto possa essere comprensibile non è utile a nessuno. Oppure la condizione diagnosticata può diventare fonte di stigmatizzazione sociale, cosa che accade quando la società non è educata ad accogliere e comprendere le differenze e qualsiasi forma di diversità – anche e forse soprattutto quando convalidata da un’etichetta medica – diventa motivo di esclusione. Una diagnosi inoltre può essere utilizzata da persone con pochi scrupoli che vedono negli appartenenti a determinate categorie un target ideale per piazzare terapie alternative o farmaci e integratori di dubbia utilità e spesso privi di riscontro scientifico.

Detto questo, riprendendo il discorso di prima, in questo particolare momento la pressione è molto alta per vari motivi. Il lavoro mi richiede sforzi costanti, soprattutto nei momenti di contatto con gli altri come le riunioni continue e le lezioni all’università. Inoltre, la situazione politica qui a Barcellona ultimamente non è affatto tranquilla, e la cosa influisce negativamente sulla convivenza e la pace sociale creando un’atmosfera tesa e una grande incertezza su cosa accadrà perfino nel breve periodo. Insomma, per una persona come me anche il fatto di non sapere se una determinata strada sia percorribile o la stazione della metropolitana sia bloccata dai manifestanti, o rischiare trovarsi nel mezzo di un episodio di guerriglia urbana, può avere effetti devastanti.

E infatti da qualche giorno ho cominciato a notare dei piccoli cedimenti. Ho ripreso a sgambettarmi da solo quando cammino per strada, riuscendo a inciampare anche in assenza di buche, sassolini o altri ostacoli; la vista è peggiorata e ho dovuto riprendere gli occhiali, che sono per me un campanello d’allarme, dal momento che diventano necessari esclusivamente quando la situazione è davvero arrivata al limite.

In casi estremi come questo comincio perfino ad avere problemi al pianoforte.

L’esecuzione musicale è l’ultima cosa a subire le conseguenze negative di un forte periodo di stress, e so che devo preoccuparmi quando durante lo studio gli errori si vanno moltiplicando. In pratica, le dita sbagliano a colpire il tasto, spesso di pochissimo, perché diventa difficile coordinare quei movimenti quasi impercettibili ed estremamente precisi che richiede l’esecuzione allo strumento. Questo per me è ovviamente un problema di dimensioni inimmaginabili, dal momento che suonare è l’unica attività in grado di calmarmi. Così, in un pirotecnico circolo vizioso, l’incapacità di suonare decentemente mi procura una frustrazione enorme che alimenta in modo ancora più forte la tensione. Amen.

Quando cala l’attenzione perché cresce la tensione, comincia a succedere una cosa che può apparire anche divertente: il mio terrore di finire addosso alle vecchiette per strada. Sembrerà assurdo, ma quando vedo una vecchietta che avanza verso di me lentamente appoggiandosi al suo bastone, comincio ad allontanarmi perché so benissimo che se mi ci trovo troppo vicino rischio di sbandare proprio a causa del timore di finirle addosso, sarà che le vedo già pericolanti di loro.

Non so bene come funzioni questa cosa, ma so che più volte mi è capitato di inciampare proprio mentre mi passano accanto, e ormai quando sono per strada insieme a Maurizio mi sento sempre prendere sotto braccio e tirare lontano dai vecchietti o dalle persone con difficoltà nella deambulazione che incoscientemente incrociano il nostro cammino.

Vista la mia brillante coordinazione motoria non è un caso che da ragazzino cercassi ogni scusa possibile per evitare l’ora di educazione fisica, fonte costante di infinite prese per il culo da parte dei compagni di classe che, inspiegabilmente per me, riuscivano a canestri e nelle porte di calcio coi palloni, facevano esercizi al quadro svedese senza rimanervi intrecciati in un doppio nodo, arrivavano interi alla fine dei  100 metri di corsa.

In periodi di particolare stress come quello attuale mi capita inoltre di ritrovarmi sul corpo, soprattutto sulle gambe, lividi ed escoriazioni che non riesco proprio a ricordare in che modo mi sia procurato, perché bisogna aggiungere che ho una soglia della percezione del dolore piuttosto alta, e così vado a sbattere allegramente contro mobili, spigoli e porte e spesso nemmeno ci faccio caso. Una cosa in cui sono maestro è ad esempio la capacità di infilarmi le maniglie delle porte nei fianchi. Passo accanto a una porta aperta, calcolo lo spazio a disposizione e cerco di mantenermi il più distante possibile dalla suddetta porta, e sistematicamente mi ritrovo la maniglia infilata nel fianco, e lì sì che fa male e anche parecchio.

Poi, almeno nel mio caso, c’è anche questa cosa della scrittura. Basta prendere uno dei miei quaderni (ne conservo alcuni anche di tanti anni fa) per indovinare con precisione matematica quando ho attraversato un periodo difficile: la grafia comincia a peggiorare fino a diventare realmente illeggibile. È affascinante osservare il rapido deterioramento della motricità fine che subisco quando i miei livelli di attenzione precipitano. Soprattutto, trovo che questa cosa dia la misura di quanto impegno le persone come me debbano porre – spesso anche in modo automatico – in ogni singolo gesto quotidiano.

Quindi, per tornare alla macabra storiella di Halloween, giovedì ho avuto una di quelle giornate da dimenticare. Sveglia al mattino con atroce sensazione di catastrofe imminente, shutdown di quelli col botto durante una riunione all’università, roba che avrò detto tre parole in un’ora e nemmeno so se avessero un senso compiuto, e la serata di Halloween trascorsa a fermare un’emorragia sulla lingua che sembravo un vampiro appena dopo cena.

Perché non so quale neurone fulminato mi abbia suggerito di andare in cucina, prendere un paio di mandorle, infilarmele in bocca e cominciare a masticare nelle condizioni in cui mi trovavo.

Ci ho messo esattamente 20 secondi prima di lanciare un ululato agghiacciante e a ritrovarmi letteralmente sputando sangue per quasi un’ora.

Perché quando sono per strada riesco a stare attento a non caracollare sulle povere vecchiette e cerco di non andare a sbattere contro i pali della luce, ma se sono da solo nel mio studio allora l’attenzione cala ancora di più. E così mi sono ritrovato con due buchi nella lingua proprio prima di cena, cercando di tamponare la ferita con tonnellate di deliziosa garza sterile e pensando che, con la fame boia che sentivo salire, mi sarebbe toccato al massimo del tristissimo semolino tiepido.

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