La giornata mondiale della sindrome di Asperger

Oggi, 18 febbraio, ricorre la giornata mondiale della sindrome di Asperger

E, come ogni anno, leggeremo una valanga di articoli carichi di imprecisioni, articoli e post che in molti casi perpetreranno stereotipi e falsi miti sull’autismo, spesso scritti da persone con una conoscenza vaga e confusa dell’argomento. E allora, proviamo a fare chiarezza sui punti che vengono sistematicamente fraintesi.

Innanzi tutto, bisogna specificare che dal 2013, con la pubblicazione della quinta edizione del manuale diagnostico dell’Associazione Psichiatrica Americana (DSM-5), la sindrome di Asperger è stata inclusa nei disturbi dello spettro autistico, scomparendo di fatto come definizione diagnostica autonoma. A prescindere da questo cambiamento, molte persone diagnosticate come Asperger preferiscono continuare a usare questa definizione in riferimento a sé stesse. È una questione identitaria, e sebbene io preferisca (per vari motivi, anche sociali e politici) essere definito autistico, credo che vada rispettata la scelta di ciascuna persona.

Sicuramente oggi leggerete che l’asperger è caratterizzato da “deficit sociali” o “incapacità di stabilire rapporti sociali”, e che le persone asperger sono “completamente disinteressate a sancire rapporti di amicizia o di affetto con i coetanei” (tutto preso da articoli sull’argomento). Questo è il risultato di una visione deficitaria dell’autismo che contrasta con il concetto di neurodiversità che, lentamente, sta cominciando a diffondersi anche nel mondo accademico e clinico. La neurodiversità è l’estensione del concetto di biodiversità alle differenze neurologiche tra gli esseri umani. È un concetto importantissimo, quello di neurodiversità, perché ci allontana da una narrazione che vede alcune caratteristiche neurologiche come necessariamente problematiche o intrinsecamente deficitarie, spostando l’attenzione invece sulle differenze. Solo da qui può partire un discorso paritario e reciproco. Differente non vuol dire inferiore o difettoso ma, appunto, differente. Cosa che, tra l’altro, non mette in discussione le difficoltà che alcune di queste differenze possono causare, soprattutto se viste da un’ottica sociale in cui esse potrebbero essere anche il risultato dell’interazione tra la persona e il contesto in cui vive. È fondamentale, il concetto di neurodiversità, perché rende tutte e tutti responsabili delle barriere che inevitabilmente creiamo sul cammino di chi percepiamo è differente da noi.

La sindrome di Asperger (l’autismo, in generale) non è una malattia.

E questo non perché ci sia qualcosa di brutto nell’essere malati, ci mancherebbe altro, ma perché l’idea di malattia è legata a quella di cura, di guarigione, ma l’autismo è una condizione del neurosviluppo che accompagna la persona per tutta la vita, non si cura, è una diversa organizzazione del sistema nervoso con le differenze comportamentali, sensoriali, cognitive ed emotive che ne conseguono. Per cui noi persone autistiche non andiamo curate (almeno, non dall’autismo), non siamo “affette” né “soffriamo” di autismo o asperger.

Inoltre, continuare a dire che “soffriamo” di autismo, non fa altro che alimentare un linguaggio del dolore, come se le persone neurodivergenti – incluse quindi quelle autistiche – vivessero costantemente una vita di sofferenza. Sarebbe invece il caso di riflettere sul fatto che una buona parte di quelle difficoltà che sicuramente incontriamo nella nostra vita, sono causate dall’interazione con una società a maggioranza neurotipica che, ovviamente, è strutturata da e per persone neurotipiche, non autistiche. Diciamo quindi che, come per le disabilità motorie esistono barriere architettoniche (e non solo quelle architettoniche), alle persone nello spettro autistico la società pone delle barriere che possono essere cognitive, sensoriali, sociali.

Molto spesso si legge anche che le persone asperger non hanno empatia.

Mi dispiace deludere i fan accaniti di quella visione dell’autismo, ma non è così. Quasi quattro decadi fa, i ricercatori Simon Baron-Cohen e Uta Frith ipotizzarono che noi persone autistiche avessimo un deficit nella Teoria della Mente[1] (ToM, o Theory of Mind, in inglese), ossia che non fossimo capaci di attribuire stati mentali a noi stesse e agli altri.

Questa idea, che ha stigmatizzato ulteriormente le persone autistiche, è stata successivamente ritrattata dallo stesso Baron-Cohen, ma soprattutto è stata sconfessata da diversi ricercatori, tra cui Ann Gernsbacher[2] oppure Damian Milton. In particolare Milton, ricercatore autistico, col suo Problema della Doppia Empatia[3] ci spiega come le persone autistiche non abbiano un deficit nella ToM, non siano carenti di empatia, ma semplicemente utilizzino altri parametri e codici per analizzare il comportamento di chi hanno di fronte, inferirne gli stati mentali e comportarsi di conseguenza. In pratica, tra autistici e non autistici parliamo due lingue differenti, e finché non troveremo un linguaggio comune avremo sempre l’impressione di non capirci a vicenda.

E quindi, come si fa a parlkare di autismo? Forse potrebbe essere utile ascoltare. Un passaggio importante (certo, non l’unico) per comprendere realmente una una persona neurodivergente è ascoltarla. E ascoltare vuol dire mettere da parte i pregiudizi, non dare credito agli stereotipi; ascoltare presuppone la volontà di comprendere realmente chi abbiamo davanti , le sue necessità, vedere le differenze per quello che effettivamente sono: differenze, non difetti o mancanze.

NOTE:
[1] Baron-Cohen, S., Leslie, A. M., & Frith, U. (1985). Does the autistic child have a “theory of mind” ? Cognition, 21(1), 37–46. doi: 10.1016/0010-0277(85)90022-8
[2] Gernsbacher, M. A., & Yergeau, M. (2019). Empirical Failures of the Claim That Autistic People Lack a Theory of Mind. Archives of scientific psychology, 7(1), 102–118. doi:10.1037/arc0000067
[3] Milton, D. E. M. (2012). On the ontological status of autism: the “double empathy problem.” Disability & Society, 27(6), 883–887. doi:10.1080/09687599.2012.710008

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