Ieri pomeriggio ci sarebbe dovuta essere a Bookcity Milano la prima presentazione del mio nuovo libro, “L’Errore. Storia anomala della normalità”. Ero emozionato e felice perché del libro ne avrei parlato con Valentina Tomirotti e Irene Facheris, ma qualcosa è andata storta e alla fine abbiamo dovuto cancellare la presentazione, con grande dispiacere per tutte le persone – tante – che erano venute per partecipare all’evento.
Ad andare storto è stato che siamo andate a sbattere frontalmente contro un muro che per la maggior parte delle persone è a prima vista invisibile, un vero e proprio quadro culturale che prende il nome di abilismo, e che si manifesta come uno dei modi in cui nella nostra società normocentrica, una parte della popolazione esercita il proprio potere su una minoranza, sulle persone disabilitate. Nello specifico, ieri sera abbiamo deciso di annullare la presentazione perché il luogo in cui era stata programmata non è accessibile a chiunque utilizzi una carrozzina.
Spesso pensiamo all’abilismo come alla discriminazione delle persone disabilitate, eppure la cosa è più complessa. L’abilismo in realtà è un vero e proprio sistema culturale e sociale che privilegia la persona non disabilitata come norma ideale, organizzando credenze, comportamenti e ambienti attorno a questa norma e marginalizzando chiunque si discosti da essa. Non è solo discriminazione, ma un modello strutturale che definisce ciò che è “normale” e “valido”, plasmando istituzioni, spazi e relazioni in modo escludente verso chi non rientra nella norma.
In altre parole, viviamo in un mondo che non prevede l’esistenza di corpi, menti, sensi e modalità relazionali diversi da quelli di una ideale maggioranza. Questa precisazione è fondamentale per comprendere quanto l’abilismo sia strutturale, quanto sia radicato e appaia invisibile a quella maggioranza che gode del privilegio di non doversene preoccupare quotidianamente, che può decidere di andare ad assistere a un evento senza dover verificare se la sala è accessibile, che può tranquillamente salire su un treno o un aereo, frequentare una lezione, guardare un film, andare al ristorante, insomma, fare le cose che la maggioranza delle persone fa senza nemmeno pensare a questa struttura sottostante che allo stesso tempo, silenziosamente, sta escludendo altre persone.
Ed è fondamentale chiamare in causa la cosiddetta maggioranza “abile” proprio perché altrimenti il rischio è di affrontare il problema sempre e solo focalizzandosi su quella parte della popolazione disabilitata, come se la soluzione al problema fosse una responsabilità della persona non conforme all’ideale artificiale di normalità. Come se la sua esistenza fosse il problema.
Questa cosa, questo senso di colpa, è emersa anche ieri sera in modo evidente. Valentina ieri si è sentita in colpa per quanto stava accadendo, come se la causa del problema fosse lei e non il sistema che la stava escludendo. E con lei ci siamo sentite in colpa anche io e Irene, colpevoli di aver dovuto annunciare (noi, non l’organizzazione che ha temporeggiato per più di un’ora prima di confermarci che non c’era modo di recuperare una pedana) alle persone presenti che la presentazione era annullata. È una sensazione strisciante che le persone escluse da un sistema normocentrico sperimentano in vari modi ogni volta che la loro esistenza è d’intralcio al “normale” svolgimento della vita sociale della maggioranza. E questo è inammissibile, è disumanizzante.
Avere interiorizzato il senso di fastidio che deriva dal doversi occupare del “problema”, del ritrovarsi con una situazione da risolvere perché l’accessibilità è solo una bella parola che ci piace usare, ma che rimane una soluzione isolata legata a situazioni specifiche, un concetto da tirare fuori in modo paternalistico e caritatevole e che aumenta ancora di più la percezione per la persona disabilitata di essere lei il problema, è qualcosa che non dovrebbe accadere, mai.
Ieri sera ci siamo andate a schiantare contro questo sistema, abbiamo potuto verificare tutte e tutti (le persone che erano venute ad assistere, io, Valentina e Irene, e anche l’organizzazione dell’evento) quanto quei concetti di cui alcune e alcuni di noi tanto parlano non sono una cosa astratta, ma agiscono sulla vita delle persone, di tutte le persone, non solo di quelle disabilitate. E quanto sia necessario ripensare il nostro modello di società, perché è inammissibile che ancora oggi si organizzino eventi pubblici in spazi inaccessibili. Quanto accaduto ieri è stato grottesco perché si trattava della presentazione di un libro in cui parlo di disabilitazione e in cui una delle relatrici è una persona che usa una carrozzina elettrica, ma avrebbe potuto essere la presentazione di un libro di cucina o di un romanzo. In ogni caso, quell’evento sarebbe stato vietato a chiunque non avesse potuto percorrere la scalinata.
Ed è qui la palese manifestazione di quell’esercizio del potere di cui parlavo all’inizio, del fatto che se non rientri in quella normalità tanto apparentemente impercettibile quanto pervasiva, la tua vita dipende dalle decisioni di qualcun altro. Si parla tanto di inclusione (termine che ormai è risaputo non condivido proprio in quanto espressione di un paternalismo inaccettabile), si parla di indipendenza delle persone disabilitate, ma questi discorsi rimangono isolati, sempre relativi a realtà specifiche, a soluzioni di emergenza.
E mi domando se non sia il caso di riflettere su quanto disumano sia togliere ad alcune persone la possibilità di decidere della propria vita, poter scegliere come chiunque altra dove andare, cosa fare, come trascorrere il proprio tempo. Inclusione e accessibilità rimangono concetti legati sempre a un ambito di necessità, di bisogni che non a caso sono malamente definiti “speciali”. Ma le aspirazioni, i desideri, la quotidianità non vi rientrano.
Sono davvero amareggiato per quanto è accaduto ieri, e non per la mia presentazione, quanto per il fatto che questa è la quotidianità per tante persone. Persone che vengono invisibilizzate, private della possibilità di partecipare alla vita sociale dalla nostra incapacità di comprendere quanto il sistema nel quale viviamo sia escludente, e quanto la responsabilità di questa esclusione sia collettiva, riguardi tutte, tutti e tutt* in prima persona.